Nella basilica "Srca Isusova" di Zagabria, si è tenuta qualche giorno fa una messa per Ante Pavelić, storico capo del movimento filonazista croato degli Ustascia che ha governato gli odierni territori di Croazia e Bosnia-Erzegovina durante la Seconda Guerra Mondiale, allora uniti nella NDH (Stato indipendente croato).
Pavelić ha condotto le milizie degli Ustascia, ufficialmente inquadrate nelle S.S. di Adolf Hitler, fino a una temporanea conquista del potere, fra il 1941 e il 1945. L'esercito alle sue direttive si è macchiato di crimini contro l'umanità, compiendo stragi e epurazioni etniche contro la popolazione serba, rom, ebraica e omosessuale. Oltre a queste categorie sistematicamente colpite, erano meta di crimini orrendi tutti gli oppositori del suo regime.
Personaggio ancora oggi ammirato (e talvolta invocato) da una discreta fetta della popolazione croata, è tornato spesso alla ribalta per il controverso rapporto che lo stesso clero ha avuto con lui. Si ricordano i suoi rapporti con l'Arcivescovo di Zagabria negli anni Quaranta, Aloizije Stepinac, colluso con il regime degli Ustascia secondo fonti storiche, ma dichiarato beato dalla Chiesa.
Quello che però genera più controversie è il rapporto ambiguo dell'odierno clero con la sua figura, rispecchiato perfettamente in questa messa dedicatagli, che non è la prima negli ultimi anni.
L'opinione pubblica si è presto infiammata ma, povera di giornalisti degni di tale nome, ha generato una diatriba effimera. Fra i media legati alla Chiesa e alla religione cattolica, Luka Popov è il commentatore che ha ricevuto più credito, con una teoria che non sta in piedi dalle fondamenta.
Secondo Popov, Pavelić si sarebbe pentito prima della morte, non pubblicamente. E, nonostante le perplessità che potrebbero essere sollevate, il discorso fino a qui regge. In seguito, il blogger croato spiega che, nel caso di un pentimento sincero, l'anima di Pavelić potrebbe trovarsi in Purgatorio, pertanto la messa e le preghiere per la sua anima sarebbero lecite. Nel caso, il pentimento non fosse stato sincero, le preghiere non sarebbero vane, perché andrebbero a favore delle altre anime del Purgatorio.
Discorso meraviglioso, che ricalca anche la concezione della Commedia dantesca, ma che trova un muro invalicabile nella dichiarazione del 12 gennaio 2011 del Papa Benedetto XVI.
Ratzinger definisce il Purgatorio come luogo interiore dell'anima con il quale avvicinarsi alla Misericordia e non un luogo extraterreno, ricalcando il pensiero di Santa Caterina da Genova.
Con ciò, dopo la morte si presentano solo due vie: Inferno o Paradiso. E vista l'infallibilità del Papa in materia teologica, sancita dal Concilio Vaticano I del 18 luglio 1870, la discussione non si pone.
Il ragionamento di Luka Popov è pertanto lontano dal giustificare la messa in questione, tenutasi pubblicamente e con tanti partecipanti, prevalentemente non legati a Pavelić da rapporti di parentela.
mercoledì 30 dicembre 2015
domenica 20 dicembre 2015
Io volevo solo amarla
Io non volevo cambiare il mondo, a me questo andava bene... Non guardavo attraverso microscopi, alla ricerca di virus sconosciuti, non leggevo enciclopedie, non cercavo la media... Io volevo solo amarla, a Novi Sad, sul Danubio, dove esisteva un vecchio ponte di ferro, sopra al quale lei passava, sciogliendo quei suoi capelli, come una rete di seta in cui si impigliavano gli steli del chiaro di luna, come stupidi pagelli...
Io non volevo cambiare il mondo, a me questo andava bene... Io volevo solo amarla, a Novi Sad, sul molo, guardandola come una fortezza che è stata sconfitta, dopo così tanti anni... E baciandola, sotto quegli stessi ponti... Che non ci sono più...
Io so che il tempo prende sempre ciò che è suo. E non so, perché dovrebbe risparmiare noi? Ma, ecco, nulla tranne noi due aveva valore per me...
(Djordje Balaševič)
Io non volevo cambiare il mondo, a me questo andava bene... Io volevo solo amarla, a Novi Sad, sul molo, guardandola come una fortezza che è stata sconfitta, dopo così tanti anni... E baciandola, sotto quegli stessi ponti... Che non ci sono più...
Io so che il tempo prende sempre ciò che è suo. E non so, perché dovrebbe risparmiare noi? Ma, ecco, nulla tranne noi due aveva valore per me...
mercoledì 16 dicembre 2015
Perché è necessario proteggere i cattolici della Bosnia-Erzegovina?
Nella Bosnia-Erzegovina, uno dei principali gruppi costituenti del Paese è di religione cattolica. La sua popolazione è in netto calo dagli anni '90 e oggi costituisce circa il 15% del totale.
I cattolici sono stanziati prevalentemente nell'Erzegovina (la parte meridionale del Paese), ma sono presenti anche nella parte centrale della Bosnia, come nella capitale Sarajevo e, in gran numero, nella parte settentrionale del paese, vicino al fiume Sava. Possiedono il doppio passaporto, bosniaco e croato, con la tendenza a privilegiare il secondo in fatto di sentimento nazionale.
Negli ultimi anni, però, il sentimento di identità ha cominciato a riconoscere una doppia nazionalità e una doppia patria (sia croata che bosniaca), soprattutto nella popolazione più giovane.
Il netto calo della popolazione cattolica in Bosnia-Erzegovina è preoccupante: si sono rese conto di questo anche figure di grande spicco, come Papa Francesco o la Presidente croata Grabar-Kitarovic.
Questo calo rischia di accentuarsi e lasciare il Paese senza la sua essenziale componente cattolica: non perché ci sia una persecuzione o una grande ostilità nei confronti della stessa, ma per ragioni di qualità della vita. La Bosnia-Erzegovina è un paese uscito con le ossa rotte dal conflitto per la secessione degli anni '90, trasformatosi poi in guerra civile, e la sua economia è allo sfascio, al pari delle istituzioni. I giovani cercano di trovare un futuro all'estero e l'emigrazione è sempre costante. La popolazione cattolica è favorita in qualche modo in questo processo, grazie al passaporto croato che di recente è diventato europeo e permette di espatriare con grande facilità. I flussi sono diretti prevalentemente verso la vicina Croazia oppure verso le nazioni dell'Europa Centrale. Questo flusso provoca, specialmente nella parte cattolica della popolazione, un trend demografico negativo: i giovani espatriano e rimane soltanto la popolazione più anziana.
Questo andazzo rischia di essere particolarmente negativo per un Paese anomalo come la Bosnia-Erzegovina, alla ricerca di un equilibrio prima di tutto sociale e demografico ancora dalla sua nascita nel 1992. Anche perché un Paese tradizionalmente pluriconfessionale perderebbe il suo significato (o quel poco che ne è rimasto), perdendo anche una sola delle sue confessioni costituenti; cattolica, musulmana o ortodossa che sia.
In questo senso, è stata importante la meravigliosa visita di Papa Francesco, a Sarajevo, nell'estate di quest'anno e la fraterna apertura della Croazia alle questioni bosniache, grazie alla Presidente Grabar-Kitarovic. Il nuovo impegno di Dragan Covic, capo del maggiore partito rappresentante i cattolici, è un passo avanti nella stessa direzione, sulla tortuosa e accidentata strada verso il consolidamento (o la vera costituzione) di un paese nato sotto l'egida del cattolicesimo, che ha poi dato vita a tante diramazioni in ambito religioso.
Oltre questo, è fondamentale
che la Bosnia-Erzegovina conosca presto almeno un leggero passo avanti riguardo l'economia e la qualità della vita, in modo da potere offrire ai propri cittadini un'esistenza degna nella propria terra di origine.
I cattolici sono stanziati prevalentemente nell'Erzegovina (la parte meridionale del Paese), ma sono presenti anche nella parte centrale della Bosnia, come nella capitale Sarajevo e, in gran numero, nella parte settentrionale del paese, vicino al fiume Sava. Possiedono il doppio passaporto, bosniaco e croato, con la tendenza a privilegiare il secondo in fatto di sentimento nazionale.
Negli ultimi anni, però, il sentimento di identità ha cominciato a riconoscere una doppia nazionalità e una doppia patria (sia croata che bosniaca), soprattutto nella popolazione più giovane.
Il netto calo della popolazione cattolica in Bosnia-Erzegovina è preoccupante: si sono rese conto di questo anche figure di grande spicco, come Papa Francesco o la Presidente croata Grabar-Kitarovic.
Questo calo rischia di accentuarsi e lasciare il Paese senza la sua essenziale componente cattolica: non perché ci sia una persecuzione o una grande ostilità nei confronti della stessa, ma per ragioni di qualità della vita. La Bosnia-Erzegovina è un paese uscito con le ossa rotte dal conflitto per la secessione degli anni '90, trasformatosi poi in guerra civile, e la sua economia è allo sfascio, al pari delle istituzioni. I giovani cercano di trovare un futuro all'estero e l'emigrazione è sempre costante. La popolazione cattolica è favorita in qualche modo in questo processo, grazie al passaporto croato che di recente è diventato europeo e permette di espatriare con grande facilità. I flussi sono diretti prevalentemente verso la vicina Croazia oppure verso le nazioni dell'Europa Centrale. Questo flusso provoca, specialmente nella parte cattolica della popolazione, un trend demografico negativo: i giovani espatriano e rimane soltanto la popolazione più anziana.
Questo andazzo rischia di essere particolarmente negativo per un Paese anomalo come la Bosnia-Erzegovina, alla ricerca di un equilibrio prima di tutto sociale e demografico ancora dalla sua nascita nel 1992. Anche perché un Paese tradizionalmente pluriconfessionale perderebbe il suo significato (o quel poco che ne è rimasto), perdendo anche una sola delle sue confessioni costituenti; cattolica, musulmana o ortodossa che sia.
In questo senso, è stata importante la meravigliosa visita di Papa Francesco, a Sarajevo, nell'estate di quest'anno e la fraterna apertura della Croazia alle questioni bosniache, grazie alla Presidente Grabar-Kitarovic. Il nuovo impegno di Dragan Covic, capo del maggiore partito rappresentante i cattolici, è un passo avanti nella stessa direzione, sulla tortuosa e accidentata strada verso il consolidamento (o la vera costituzione) di un paese nato sotto l'egida del cattolicesimo, che ha poi dato vita a tante diramazioni in ambito religioso.
Oltre questo, è fondamentale
che la Bosnia-Erzegovina conosca presto almeno un leggero passo avanti riguardo l'economia e la qualità della vita, in modo da potere offrire ai propri cittadini un'esistenza degna nella propria terra di origine.
venerdì 23 ottobre 2015
Dražen e mio padre
Un grande poster di Dražen Petrović è quello che mi rimane di mio padre, insieme a qualche scolorita fotografia degli anni Novanta di un bambino in cui fatico a riconoscermi, in braccio a un giovane uomo dai capelli bruni.
Tante persone vedono in me mio padre. Per somiglianza, per modi di fare, per il modo in cui cammino. Non ho praticamente conosciuto mio padre. Non ho mai visto giocare Petrović. Spesso penso di essermi perso tanto: non riesco a vedere più di un paio di giocate di Dražen senza piangere. E non ne so il motivo. Spesso vado davanti a un canestro a tirare, tutto solo, in una pace che adoro. Somiglio tanto a mio padre.
Due uomini tanto lontani, due storie tanto diverse, eppure tanto affini. Mio padre si era avvicinato alla pallacanestro quando aveva cominciato l'università. Era il 1988, erano gli anni d'oro della pallacanestro dell'Ex Iugoslavia. Gli anni in cui la Jugoplastika Spalato scriveva per sempre il proprio nome nella storia del basket europeo con Kukoč e Radja che portavano per tre anni di seguito la squadra sul tetto d'Europa. Gli anni in cui la Nazionale iugoslava diventava due volte campione d'Europa, campione del mondo e prendeva l'argento alle Olimpiadi di Seoul. Il tutto giungeva dopo che il Cibona Zagabria guidato da Petrović era stato due anni consecutivi campione d'Europa e dopo che il Mozart di Sebenico aveva già incantato l'Europa intera e si preparava a fare altrettanto in NBA. Il tutto prima che la Iugoslavia diventasse terra di morte e guerra.
Fra tutte queste luci di gloria, oggi non so se e chi tifasse mio padre. Non so se seguisse il Cibona, la Jugoplastika o il Bosna, squadra della sua Sarajevo (tanto per cambiare campione d'Europa 1979 sulle ali di Delibašić). So di una vaga simpatia per i Lakers, a detta di mia madre, ma so per certo che l'idolo di una vita, l'idolo assoluto e il primo suo riferimento era Dražen Petrović. Quel ragazzo che aveva fatto innamorare l'intera Iugoslavia della sua figura, umana oltre che di cestista, che è trapassata nella leggenda e nel ricordo eterno la notte di quel maledetto 7 giugno 1993. Dopo aver illuminato gli occhi dei tifosi del Real Madrid e di tutti gli appassionati d'Europa, già affermato come uno dei più grandi cestisti europei di sempre, Dražen si era deciso per l'NBA. In anni in cui gli europei in America non erano minimamente considerati, Petrović prima a Portland e poi a New Jersey ha dimostrato di poter essere uno dei migliori giocatori della lega. Nel giugno 1993, dopo un torneo di qualificazione per l'europeo in Polonia, Dražen aveva deciso di tornare a casa in macchina. Troppo stanco, aveva lasciato la guida all'allora fidanzata. All'altezza di Denkendorf (Germania), mentre Dražen dormiva nel sedile vicino alla conducente, un camion ha colpito l'automobile.
Per Dražen non c'è stata speranza. Uno dei più grandi figli croati se n'era andato per sempre, mentre nei Balcani infuriava il sanguinoso conflitto. E nonostante la morte fosse all'ordine del giorno, nonostante quasi non facesse più effetto, non c'è stato un uomo, appassionato di basket o meno, che non fosse rimasto colpito dalla scomparsa di una tale grandezza d'uomo e di cestista. Mio padre era a Sarajevo nel 1993, città assediata e avvolta nella morte, fra sangue e granate. Aveva sposato mia madre. Aveva dovuto interrompere gli studi, aveva dovuto abbandonare la sua elettrotecnica e il pallone da basket, per imbracciare il fucile, per combattere una guerra che mai ha ritenuto sua, da cui ha voluto scappare dal principio. Spesso mi chiedo come avesse reagito alla morte di Dražen, ai suoi pensieri. Aveva pianto?
La guerra è finita nel 1995, mio padre era tornato a casa. Era andato in Germania, dove nascevo io, lontano dai tuoni delle granate. Tornato in patria con me e mia madre, aveva cominciato a cercare un lavoro, una soluzione per un futuro migliore. Aveva un piccolo Renault Caddy, con cui sbrigava la maggioranza delle faccende. Il 3 marzo 1997, il Caddy era rimasto a casa, non guidava lui. Sedeva vicino al conducente quando vicino a Špionica, la macchina si è scontrata con un carro pesante dell'UNPROFOR.
Mio padre è morto a 28 anni, proprio come Dražen, in un incidente stradale, proprio come Dražen.
mercoledì 2 settembre 2015
L'ondata di profughi in Europa
Il tema più caldo delle ultime giornate è quello riguardante il lungo viaggio dei profughi, in prevalenza siriani, verso l'Europa. Definire queste persone "profughi" invece che "immigrati" dovrebbe rappresentare una convenzione da rispettare per chiunque tratti del tema, ma come spesso succede, i giornalisti ignorano questa fondamentale distinzione in favore di titoli più spettacolari, volti al populismo. In prima linea fra questi sono i tabloid e le televisioni britanniche che proprio non vogliono rinunciare alla produzione di cartastraccia da sottoporre ai propri avidi lettori. Un quadro migliore arriva dalla Germania, le cui televisioni hanno voluto porre davanti agli occhi del proprio pubblico le differenze fra "profughi" e "immigrati". Un profugo è colui che fugge da una situazione di guerra e pericolo (come coloro che fuggono da Siria, Afghanistan e diversi paesi africani), mentre un immigrato è colui che lascia il proprio paese alla ricerca di migliori opportunità economiche, senza lasciarsi alle spalle una situazione disperata.
Pertanto, il tema dell'accogliere o meno questa grande massa di persone deve toccare questa distinzione, in quanto a un profugo deve essere offerto asilo politico per convenzioni internazionali (e quindi per legge), mentre l'Europa verso un immigrato economico non ha questi obblighi.
Chiaramente, in una situazione come quella odierna la precedenza andrebbe data ai profughi piuttosto che agli immigrati economici, ma soprattutto non andrebbe mai messo in discussione il diritto dei profughi all'asilo politico. Ancora una volta la Germania si è mostrata il paese più rispettoso degli obblighi internazionali, annunciando per voce di Angela Merkel di essere disposta ad accogliere 800.000 persone. Certo, a Heidenau i manifestanti di estrema destra hanno fatto passare tutta un'altra idea, ma l'ufficiale condanna delle violente proteste da parte della stessa cancelliera e della grande maggioranza della nazione mostra una Germania in un netto vantaggio rispetto alle amiche Francia e Gran Bretagna, intente a giocare a palla con i profughi a Calais.
Non meno signori di questi ultimi sono stati i colleghi nell'Est Europa: cechi e slovacchi hanno deciso di marchiare i profughi con codici di identificazione mentre gli ungheresi si sono muniti di un lungo filo spinato contro gli stessi, riproponendo "tecniche sociali" appartenenti a uno dei periodi più oscuri dell'umanità. In patria, abbiamo un "politico" come Matteo Salvini, che sarà felice di queste soluzioni, confermandosi ancora pastore di un gregge che si ciba di un populismo fra il mediocre e il ridicolo.
Segnali positivi, invece, arrivano da un paese che potrebbe impartire lezioni di educazione e civiltà a mezzo mondo come l'Islanda. Sempre un po' dimenticata, l'isola del Nord ha già ospitato un buon numero di profughi e il governo aveva pensato di offrire soltanto altri 50 posti. Gli islandesi si sono mossi prima via social network e poi sono scesi in piazza per dare asilo a un numero ancora maggiore di profughi. 10.000 i posti offerti dai cittadini islandesi, disposti a ospitare i profughi, sotto lo slogan (per una volta positivo): "Se non sta succedendo qui, non vuol dire che non stia succedendo". Anche la Croazia si è fatta avanti per ospitare i richiedenti asilo attraverso la presidente Kolinda Grabar-Kitarovic. Certo, la Croazia riceverà così anche dei compensi economici, ma ciò non sminuisce il gesto. Lodevole pure la Serbia, che ospita un discreto numero di siriani e che ha allestito al momento dell'arrivo dei profughi strutture di accoglienza. Servizio che dovrebbe apparire scontato, ma in Ungheria evidentemente non sono dello stesso parere. I profughi oggi sono a Budapest senza strutture di accoglienza e sostegno, dopo avere comprato dei regolari biglietti per la Germania e essersi visti chiudere in faccia la stazione ferroviaria, tramite verso una nazione che ha eccome allestito delle strutture di accoglienza e che ha già dichiarato la volontà di ospitare queste persone.
La Germania ha già saputo in passato integrare perfettamente profughi e immigrati fino a farne la propria forza, creando uno stato multiculturale, economicamente stabile. La prima situazione è stata la riunificazione delle "due Germanie" del 1991, poi l'accoglienza di croati e bosniaci in fuga dalla guerra nei Balcani e i tantissimi, tantissimi immigrati economici che sono giunti e che continuano a giungere nel Paese.
Le principali tesi contrarie a quello sopra esposto, trascurando "Spariamo ai barconi" e "Rimandiamoli a casa loro", sono la paura di un contrasto culturale e religioso, dovuto alla religione musulmana della maggioranza dei profughi, e l'idea che questi siano comunque immigrati per fini economici.
La prima tesi non è da sottovalutare, visto anche il caso riportato dalla tv macedone riguardante dei profughi che si sono rifiutati di accettare viveri e acqua dalla Croce Rossa macedone perché recante un simbolo cristiano. Il problema si collega facilmente a quello dell'integrazione, immediatamente successivo all'accoglienza, da affrontare attraverso un percorso di educazione alla nuova civiltà che ospita i profughi, i quali mai dovrebbero mancare di rispetto alla nazione e alle istituzioni che hanno loro garantito un asilo politico. Inoltre, la Siria è stato uno dei paesi in maggiore crescita e con uno dei tassi di educazione più alti dell'area orientale prima del conflitto, tant'è che molti di coloro che vengono da Damasco e dintorni sono persone che hanno ricevuto un'educazione universitaria e sono in grado anche di aiutare i paesi che decidono di ospitarli. Sembra che questo dettaglio non sia sfuggito alla cancelliera Merkel, mentre i paesi dell'Est Europa, che pure potrebbero beneficiare di questo fatto, sembrano trascurarlo, sottolineando per l'ennesima volta un apparente ritardo nella mentalità, nella civiltà e nell'educazione della propria classe politica in primis, e poi anche di chi la sostiene.
L'idea che tantissime persone, se non tutte, fra quelle in viaggio siano immigrati economici è ventilata in diverse regioni europee. Ovviamente, nessuno di coloro che sostiene questo fatto lo ha dimostrato e potrebbe farlo solo operando in modo più organizzato e efficiente, durante l'accoglienza dei profughi. Rimandare a casa gli immigrati economici, tutelando così anche i diritti di chi è in fuga dalla guerra, sarebbe senz'altro un'operazione corretta, ma gli ungheresi e i loro compari sarebbero davvero in grado di riuscire in qualcosa del genere?
Dino
Pertanto, il tema dell'accogliere o meno questa grande massa di persone deve toccare questa distinzione, in quanto a un profugo deve essere offerto asilo politico per convenzioni internazionali (e quindi per legge), mentre l'Europa verso un immigrato economico non ha questi obblighi.
Chiaramente, in una situazione come quella odierna la precedenza andrebbe data ai profughi piuttosto che agli immigrati economici, ma soprattutto non andrebbe mai messo in discussione il diritto dei profughi all'asilo politico. Ancora una volta la Germania si è mostrata il paese più rispettoso degli obblighi internazionali, annunciando per voce di Angela Merkel di essere disposta ad accogliere 800.000 persone. Certo, a Heidenau i manifestanti di estrema destra hanno fatto passare tutta un'altra idea, ma l'ufficiale condanna delle violente proteste da parte della stessa cancelliera e della grande maggioranza della nazione mostra una Germania in un netto vantaggio rispetto alle amiche Francia e Gran Bretagna, intente a giocare a palla con i profughi a Calais.
Non meno signori di questi ultimi sono stati i colleghi nell'Est Europa: cechi e slovacchi hanno deciso di marchiare i profughi con codici di identificazione mentre gli ungheresi si sono muniti di un lungo filo spinato contro gli stessi, riproponendo "tecniche sociali" appartenenti a uno dei periodi più oscuri dell'umanità. In patria, abbiamo un "politico" come Matteo Salvini, che sarà felice di queste soluzioni, confermandosi ancora pastore di un gregge che si ciba di un populismo fra il mediocre e il ridicolo.
Segnali positivi, invece, arrivano da un paese che potrebbe impartire lezioni di educazione e civiltà a mezzo mondo come l'Islanda. Sempre un po' dimenticata, l'isola del Nord ha già ospitato un buon numero di profughi e il governo aveva pensato di offrire soltanto altri 50 posti. Gli islandesi si sono mossi prima via social network e poi sono scesi in piazza per dare asilo a un numero ancora maggiore di profughi. 10.000 i posti offerti dai cittadini islandesi, disposti a ospitare i profughi, sotto lo slogan (per una volta positivo): "Se non sta succedendo qui, non vuol dire che non stia succedendo". Anche la Croazia si è fatta avanti per ospitare i richiedenti asilo attraverso la presidente Kolinda Grabar-Kitarovic. Certo, la Croazia riceverà così anche dei compensi economici, ma ciò non sminuisce il gesto. Lodevole pure la Serbia, che ospita un discreto numero di siriani e che ha allestito al momento dell'arrivo dei profughi strutture di accoglienza. Servizio che dovrebbe apparire scontato, ma in Ungheria evidentemente non sono dello stesso parere. I profughi oggi sono a Budapest senza strutture di accoglienza e sostegno, dopo avere comprato dei regolari biglietti per la Germania e essersi visti chiudere in faccia la stazione ferroviaria, tramite verso una nazione che ha eccome allestito delle strutture di accoglienza e che ha già dichiarato la volontà di ospitare queste persone.
La Germania ha già saputo in passato integrare perfettamente profughi e immigrati fino a farne la propria forza, creando uno stato multiculturale, economicamente stabile. La prima situazione è stata la riunificazione delle "due Germanie" del 1991, poi l'accoglienza di croati e bosniaci in fuga dalla guerra nei Balcani e i tantissimi, tantissimi immigrati economici che sono giunti e che continuano a giungere nel Paese.
Le principali tesi contrarie a quello sopra esposto, trascurando "Spariamo ai barconi" e "Rimandiamoli a casa loro", sono la paura di un contrasto culturale e religioso, dovuto alla religione musulmana della maggioranza dei profughi, e l'idea che questi siano comunque immigrati per fini economici.
La prima tesi non è da sottovalutare, visto anche il caso riportato dalla tv macedone riguardante dei profughi che si sono rifiutati di accettare viveri e acqua dalla Croce Rossa macedone perché recante un simbolo cristiano. Il problema si collega facilmente a quello dell'integrazione, immediatamente successivo all'accoglienza, da affrontare attraverso un percorso di educazione alla nuova civiltà che ospita i profughi, i quali mai dovrebbero mancare di rispetto alla nazione e alle istituzioni che hanno loro garantito un asilo politico. Inoltre, la Siria è stato uno dei paesi in maggiore crescita e con uno dei tassi di educazione più alti dell'area orientale prima del conflitto, tant'è che molti di coloro che vengono da Damasco e dintorni sono persone che hanno ricevuto un'educazione universitaria e sono in grado anche di aiutare i paesi che decidono di ospitarli. Sembra che questo dettaglio non sia sfuggito alla cancelliera Merkel, mentre i paesi dell'Est Europa, che pure potrebbero beneficiare di questo fatto, sembrano trascurarlo, sottolineando per l'ennesima volta un apparente ritardo nella mentalità, nella civiltà e nell'educazione della propria classe politica in primis, e poi anche di chi la sostiene.
L'idea che tantissime persone, se non tutte, fra quelle in viaggio siano immigrati economici è ventilata in diverse regioni europee. Ovviamente, nessuno di coloro che sostiene questo fatto lo ha dimostrato e potrebbe farlo solo operando in modo più organizzato e efficiente, durante l'accoglienza dei profughi. Rimandare a casa gli immigrati economici, tutelando così anche i diritti di chi è in fuga dalla guerra, sarebbe senz'altro un'operazione corretta, ma gli ungheresi e i loro compari sarebbero davvero in grado di riuscire in qualcosa del genere?
Dino
Ubicazione:
Brescia BS, Italia
sabato 13 giugno 2015
Ostinati principi
Buona parte del mio carattere è ostinazione.
Perseveranza testarda.
Gentilezza che sbotta, gli argini si rompono, perdo le staffe, tutto rotola via, giù, fuori, si svuotano le falde represse, mi disidrato di tutto quello che avrei voluto dire, e quello che dico vorrei fosse un elastico che si legasse al polso delle persone che vorrei tenere con me; queste a molla rimbalzerebbero indietro al mio fianco.
Non per egoismo. Per timore di delusione.
Ma quell'elastico lo tiro troppo, finisce per schiantarsi sulla persona, la frusta e torna indietro solo lacerato e leso, leso l'elastico, lesa la persona, lesa la mia persona.
Lì io non lascio perdere.
Trasformo l'elastico in uno spago. E spero che da spago diventi un nastro, poi un filo da pesca, poi un invisibile filo di perle.
Non per egoismo. Per voler sempre salvare il salvabile, al limite del possibile, sporgendomi anche oltre l'orlo del possibile, rischiando di precipitare. Se fosse per me, nulla andrebbe perduto.
Da elastico a spago. Ruvido, ma meno doloroso.
Non lo lego stretto.
Non lo lego proprio.
Non c'è a chi legarlo.
Lo preparo comunque, e vado a cercare la persona a cui sempre avrei voluto legarlo.
Non per egoismo. Per personale, insistente concezione di amicizia. Per me nulla finisce.
Srotolo la mia matassa di spago. È un gomitolo lungo, ne ho già usato diversi pezzi e ne ho pronti altri. Spero sempre che non mi dovranno servire, che non ne avrò bisogno, e allo stesso tempo temo che dovrò usarne ancora tanti metri.
Nei casi cattivi, mi prendono lo spago, lo tirano con violenza, me lo fanno scappare dalle mani che si lacerano, lo annodano a pugnalate, ci legano coltelli e poi me lo rigettano addosso.
Raramente schivo. Non ci riesco e mai ci provo.
Non per autolesionismo. Per principio di recuperabilità dei rapporti. Non posso rinunciarvi, non posso rinnegarlo.
Nei casi buoni, l'altra persona vede lo spago.
Lo raccoglie, lo valuta, lo prende in mano. Poi ci attacca un vasetto di yogurt vuoto bucato sul fondo, io faccio altrettanto ed è il gioco dei telefoni che si faceva tanti anni fa.
È il gioco del ricominciare a comunicare che si faceva tanto tempo fa.
Nel telefono di plastica, le parole sfilano piano piano le fibre ruvide dallo spago, e le sostituiscono con fili di raso.
Diventa un nastro. Senza fiocchi, senza nodi. È ancora fragile e si rovinerebbe, si stropiccerebbe.
Il nastro diventa forte, e nella sua forza si assottiglia, cede fibra alla relazione tra i due capi dei vasetti di yogurt vuoti bucati sul fondo.
Si fa così forte da sentirsi in grado di buttarsi in acqua, di appendersi un amo, di trattenere il respiro, di aspettare i pes(c)i.
È una lenza.
Abboccano a volte pesci, a volte solo lische; abboccano triglie e mostri, anguille fastidiose e sogliole squisitamente semplici.
Abboccano gioie e vuoti, viscidi fardelli scomodi e momenti belli da volerli scrivere su una tela per incorniciarli.
È la pesca dell'amicizia.
Col tempo, si prende coraggio e si lascia il filo da lenza.
Si allontanano i vasetti dalle orecchie e dalle labbra per ricominciare a guardarsi negli occhi. Si va a pescare insieme a mani nude, con al collo un invisibile filo di perle.
Anna
Perseveranza testarda.
Gentilezza che sbotta, gli argini si rompono, perdo le staffe, tutto rotola via, giù, fuori, si svuotano le falde represse, mi disidrato di tutto quello che avrei voluto dire, e quello che dico vorrei fosse un elastico che si legasse al polso delle persone che vorrei tenere con me; queste a molla rimbalzerebbero indietro al mio fianco.
Non per egoismo. Per timore di delusione.
Ma quell'elastico lo tiro troppo, finisce per schiantarsi sulla persona, la frusta e torna indietro solo lacerato e leso, leso l'elastico, lesa la persona, lesa la mia persona.
Lì io non lascio perdere.
Trasformo l'elastico in uno spago. E spero che da spago diventi un nastro, poi un filo da pesca, poi un invisibile filo di perle.
Non per egoismo. Per voler sempre salvare il salvabile, al limite del possibile, sporgendomi anche oltre l'orlo del possibile, rischiando di precipitare. Se fosse per me, nulla andrebbe perduto.
Da elastico a spago. Ruvido, ma meno doloroso.
Non lo lego stretto.
Non lo lego proprio.
Non c'è a chi legarlo.
Lo preparo comunque, e vado a cercare la persona a cui sempre avrei voluto legarlo.
Non per egoismo. Per personale, insistente concezione di amicizia. Per me nulla finisce.
Srotolo la mia matassa di spago. È un gomitolo lungo, ne ho già usato diversi pezzi e ne ho pronti altri. Spero sempre che non mi dovranno servire, che non ne avrò bisogno, e allo stesso tempo temo che dovrò usarne ancora tanti metri.
Nei casi cattivi, mi prendono lo spago, lo tirano con violenza, me lo fanno scappare dalle mani che si lacerano, lo annodano a pugnalate, ci legano coltelli e poi me lo rigettano addosso.
Raramente schivo. Non ci riesco e mai ci provo.
Non per autolesionismo. Per principio di recuperabilità dei rapporti. Non posso rinunciarvi, non posso rinnegarlo.
Nei casi buoni, l'altra persona vede lo spago.
Lo raccoglie, lo valuta, lo prende in mano. Poi ci attacca un vasetto di yogurt vuoto bucato sul fondo, io faccio altrettanto ed è il gioco dei telefoni che si faceva tanti anni fa.
È il gioco del ricominciare a comunicare che si faceva tanto tempo fa.
Nel telefono di plastica, le parole sfilano piano piano le fibre ruvide dallo spago, e le sostituiscono con fili di raso.
Diventa un nastro. Senza fiocchi, senza nodi. È ancora fragile e si rovinerebbe, si stropiccerebbe.
Il nastro diventa forte, e nella sua forza si assottiglia, cede fibra alla relazione tra i due capi dei vasetti di yogurt vuoti bucati sul fondo.
Si fa così forte da sentirsi in grado di buttarsi in acqua, di appendersi un amo, di trattenere il respiro, di aspettare i pes(c)i.
È una lenza.
Abboccano a volte pesci, a volte solo lische; abboccano triglie e mostri, anguille fastidiose e sogliole squisitamente semplici.
Abboccano gioie e vuoti, viscidi fardelli scomodi e momenti belli da volerli scrivere su una tela per incorniciarli.
È la pesca dell'amicizia.
Col tempo, si prende coraggio e si lascia il filo da lenza.
Si allontanano i vasetti dalle orecchie e dalle labbra per ricominciare a guardarsi negli occhi. Si va a pescare insieme a mani nude, con al collo un invisibile filo di perle.
Anna
lunedì 25 maggio 2015
La scelta
La tua scelta non è importante. Affatto.
Qualsiasi scelta non comporterà alcun significativo cambiamento, non comporterà alcuna significativa differenza. Rimarrai imbrigliato, sempre, nella solita rete.
Alla ricerca di un varco, che forse neanche c'è.
Dino
Qualsiasi scelta non comporterà alcun significativo cambiamento, non comporterà alcuna significativa differenza. Rimarrai imbrigliato, sempre, nella solita rete.
Alla ricerca di un varco, che forse neanche c'è.
Dino
mercoledì 20 maggio 2015
Romeo e Giulietta. A Sarajevo.
La Giulietta di Sarajevo si chiamava Admira. Il suo Romeo si chiamava Boško.
Non sono morti in seguito a un tragico malinteso, ma per una fucilata piovuta dall'alto.
Non sono morti sulla scena di un palco teatrale, ma su una strada che costeggia la Miljacka.
La Miljacka è un fiumiciattolo che taglia in due Sarajevo e così faceva anche nel 1992. Nei mesi in cui fioriva la primavera di quel funesto anno, in Bosnia-Erzegovina è cominciata la guerra. Sulle colline attorno a Sarajevo sono comparse figure in divise militari, con fucili in mano e stemmi serbi sull'avambraccio. Era cominciato l'assedio della città.
Le truppe serbe erano dissipate lungo le colline, nei grattacieli abbandonati e sul confine che divideva l'occupata Grbavica dal resto della città. L'obiettivo era annientare la capitale, annientare la neonata nazione (da poco indipendente da Belgrado) e poco importava se, per raggiungere questo fine, si sarebbe passati sui cadaveri di bambini, donne, uomini o anziani.
Poco importava se quelle figurine che apparivano nei cannocchiali di tiro erano persone. Poco importava se quelle persone cadevano, secondi dopo, esangui e senza vita.
Ogni giorno cadevano granate, esplodevano mine, venivano fucilati civili intenti ad attraversare un incrocio. I cecchini respiravano nelle loro fredde stanze, nei grattacieli abbandonati, caricavano il fucile, sceglievano la vittima e...
Una vita si spegneva, in un istante, senza rendersi conto dell'accaduto.
Vi erano luoghi prescelti, incroci della morte, nei quali i cecchini uccidevano le proprie vittime quotidianamente, Succedeva talvolta che per qualche giorno si assentassero e all'apparenza lasciassero tali incroci "incustoditi". Un bastardo trucco per far sì che la gente tornasse a frequentarli, illudendosi che i cecchini li avessero trascurati. Una volta finita l'astinenza, il cecchino di turno aveva altra carne con cui giocare. Altre vite con cui giocare. E ricominciava a giocare.
Admira era bosniaca, Boško tradiva origini serbe. Le loro famiglie erano del tutto favorevoli al loro amore. Sognavano una casa, dei bambini, la vecchiaia.
Una vita insieme.
Quando la guerra bussò alle porte, la famiglia di Boško trovò modo di uscire dalla città.
Lui non seguì i suoi genitori. Non poteva lasciare Admira da sola, in preda a quel mucchio di fanatici con le divise militari. Credevano che la guerra sarebbe durata poco, che il sole sarebbe tornato a splendere...
I giorni si susseguivano, invece, con lo stesso dipinto di sangue per le vie della città e la stessa melodia di artiglieria nell'aria. Admira e Boško evitavano, come in un macabro gioco, le pallottole e le granate e le mine. Ogni giorno un'incognita, ogni giorno con la speranza di vedersi alla sera.
Nel 1993, si aprì un varco: l'esercito serbo accordò l'uscita dei due dalla città in seguito a trattative condotte con l'esercito bosniaco. Per Admira e Boško sembrava la fine di un tunnel di orrori. Rimaneva un ultimo ostacolo: percorrere la via che costeggia la Miljacka con una sponda vigilata dall'esercito bosniaco, ma l'altra costellata di cecchini dell'esercito serbo. Alla fine della via, il posto di controllo che avrebbe consentito l'uscita dalla città.
L'accordo parlava chiaro: Admira e Boško sarebbero dovuti uscire illesi dalla città.
I due innamorati percorsero la via, mano nella mano, correndo verso la libertà, sotto gli occhi dei due eserciti.
Uno sparo. Boško cadeva a terra, morto. Un altro sparo. Cadeva Admira, in fin di vita.
Rantolante, in un ultimo respiro, gettava le braccia attorno al corpo esanime del ragazzo, abbracciandolo, in un ultimo gesto di amore.
Sarebbero rimasti così, per sette giorni. Due anime abbracciate in mezzo al campo di battaglia.
Due anime uccise da un cecchino serbo. Due anime come tante altre in quegli anni, divenute emblema di una città che non conosce divisioni. Una città che non conosce bosniaci, serbi o croati. Una città dove la preghiera del muezzin non è disturbata dal suono delle campane della chiesa, né lo è quella del rabbino ebraico.
Una città con uno spirito unico, che hanno cercato di uccidere con le armi.
Forse riuscendoci, forse no.
Admira e Boško sono stati raccolti dopo una settimana, da dei prigionieri dell'aggressore serbo, e seppelliti, insieme, nel vasto cimitero di Sarajevo.
Dino
Non sono morti in seguito a un tragico malinteso, ma per una fucilata piovuta dall'alto.
Non sono morti sulla scena di un palco teatrale, ma su una strada che costeggia la Miljacka.
La Miljacka è un fiumiciattolo che taglia in due Sarajevo e così faceva anche nel 1992. Nei mesi in cui fioriva la primavera di quel funesto anno, in Bosnia-Erzegovina è cominciata la guerra. Sulle colline attorno a Sarajevo sono comparse figure in divise militari, con fucili in mano e stemmi serbi sull'avambraccio. Era cominciato l'assedio della città.
Le truppe serbe erano dissipate lungo le colline, nei grattacieli abbandonati e sul confine che divideva l'occupata Grbavica dal resto della città. L'obiettivo era annientare la capitale, annientare la neonata nazione (da poco indipendente da Belgrado) e poco importava se, per raggiungere questo fine, si sarebbe passati sui cadaveri di bambini, donne, uomini o anziani.
Poco importava se quelle figurine che apparivano nei cannocchiali di tiro erano persone. Poco importava se quelle persone cadevano, secondi dopo, esangui e senza vita.
Ogni giorno cadevano granate, esplodevano mine, venivano fucilati civili intenti ad attraversare un incrocio. I cecchini respiravano nelle loro fredde stanze, nei grattacieli abbandonati, caricavano il fucile, sceglievano la vittima e...
Una vita si spegneva, in un istante, senza rendersi conto dell'accaduto.
Vi erano luoghi prescelti, incroci della morte, nei quali i cecchini uccidevano le proprie vittime quotidianamente, Succedeva talvolta che per qualche giorno si assentassero e all'apparenza lasciassero tali incroci "incustoditi". Un bastardo trucco per far sì che la gente tornasse a frequentarli, illudendosi che i cecchini li avessero trascurati. Una volta finita l'astinenza, il cecchino di turno aveva altra carne con cui giocare. Altre vite con cui giocare. E ricominciava a giocare.
Admira era bosniaca, Boško tradiva origini serbe. Le loro famiglie erano del tutto favorevoli al loro amore. Sognavano una casa, dei bambini, la vecchiaia.
Una vita insieme.
Quando la guerra bussò alle porte, la famiglia di Boško trovò modo di uscire dalla città.
Lui non seguì i suoi genitori. Non poteva lasciare Admira da sola, in preda a quel mucchio di fanatici con le divise militari. Credevano che la guerra sarebbe durata poco, che il sole sarebbe tornato a splendere...
I giorni si susseguivano, invece, con lo stesso dipinto di sangue per le vie della città e la stessa melodia di artiglieria nell'aria. Admira e Boško evitavano, come in un macabro gioco, le pallottole e le granate e le mine. Ogni giorno un'incognita, ogni giorno con la speranza di vedersi alla sera.
Nel 1993, si aprì un varco: l'esercito serbo accordò l'uscita dei due dalla città in seguito a trattative condotte con l'esercito bosniaco. Per Admira e Boško sembrava la fine di un tunnel di orrori. Rimaneva un ultimo ostacolo: percorrere la via che costeggia la Miljacka con una sponda vigilata dall'esercito bosniaco, ma l'altra costellata di cecchini dell'esercito serbo. Alla fine della via, il posto di controllo che avrebbe consentito l'uscita dalla città.
L'accordo parlava chiaro: Admira e Boško sarebbero dovuti uscire illesi dalla città.
I due innamorati percorsero la via, mano nella mano, correndo verso la libertà, sotto gli occhi dei due eserciti.
Uno sparo. Boško cadeva a terra, morto. Un altro sparo. Cadeva Admira, in fin di vita.
Rantolante, in un ultimo respiro, gettava le braccia attorno al corpo esanime del ragazzo, abbracciandolo, in un ultimo gesto di amore.
Sarebbero rimasti così, per sette giorni. Due anime abbracciate in mezzo al campo di battaglia.
Due anime uccise da un cecchino serbo. Due anime come tante altre in quegli anni, divenute emblema di una città che non conosce divisioni. Una città che non conosce bosniaci, serbi o croati. Una città dove la preghiera del muezzin non è disturbata dal suono delle campane della chiesa, né lo è quella del rabbino ebraico.
Una città con uno spirito unico, che hanno cercato di uccidere con le armi.
Forse riuscendoci, forse no.
Admira e Boško sono stati raccolti dopo una settimana, da dei prigionieri dell'aggressore serbo, e seppelliti, insieme, nel vasto cimitero di Sarajevo.
Dino
sabato 16 maggio 2015
La casa dei doganieri di Eugenio Montale
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.
Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.
Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
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Ubicazione:
Southern Europe
martedì 12 maggio 2015
L'angolo dell'odio: Trenitalia
A ognuno di noi, talvolta, succede di essere in ritardo. Dormiamo troppo a lungo, calcoliamo male i tempi oppure semplicemente siamo troppo svogliati per fare qualcosa nel modo in cui Dio comanda.
Ogni tanto, però, ognuno di noi, mosso da non so quale spirito, è puntuale.
Trenitalia, invece, no.
Sono in piedi sulla banchina, lo spazio intorno è pulito e popolato da persone sorridenti che aspettano in ordine l'arrivo del treno delle 11:33. L'orologio della stazione segna le 11:30 e la locomotiva si presenta all'orizzonte. Poco dopo, insieme a un gruppo di altri passeggeri mi avvicino alle porte scorrevoli che si aprono, lasciando uscire dei viaggiatori giunti a destinazione. Salgo con calma i due gradini mentre una signora è aiutata da un ragazzo nel portare la sua valigia all'interno. Mi siedo in un vagone dai vetri trasparenti e illuminati dal sole, dopo aver appoggiato il mio zaino nell'apposito spazio libero. Presto si accomodano vicino a me altre tre persone e il treno parte. Sono le 11:33.
Un modo per non divenire preda della frustrazione e di quella rabbia che ti ribolle dentro, perché stai soffrendo un'ingiustizia e nessuno appare colpevole, è immaginare come idealmente sarebbe prendere un treno.
Invece, l'orologio della stazione (sempre che funzioni) segna le 11:49. Il treno non è puntuale e ogni cinque minuti quella simpatica voce automatica annuncia l'accrescersi del ritardo, quasi sfottendo i passeggeri in attesa con la vecchia provocazione "ci scusiamo per il disagio". I motivi non sono mai resi noti, se non nei rari casi in cui sono in atto i "lavori di potenziamento della tratta" che porteranno sicuramente a un "miglioramento del servizio per i clienti".
In seguito si sarà detto che ci sono stati problemi nella direzione, poi la centralina di Melzo, i lavori per l'Expo (non riesco a chiamarlo Expo, mi sembra il nome di un piccolo animale domestico, un po' maltrattato), l'infrastruttura ecc ecc. Il prossimo mese arriverà il pacchetto di scuse "Offerta Estate 2015". Non tradirà le attese, visto che i pacchetti autunno-inverno sono stati senz'altro validi.
La banchina è sporca e, appena arriverà quel maledetto aggeggio vecchio e trasandato, dovrò fare a gomitate per riuscire a entrarci. Se avrò la fortuna di sedermi, annegherò in una poltrona che porta ancora il sudore del fortunato che lì sedeva due settimane prima. Se avrò la fortuna di stare in piedi, affogherò nel sudore dei fortunati che lì sono stati poco fa.
La coincidenza è bella e andata, il biglietto ovviamente pagato e timbrato regolarmente, il rimborso non è contemplato.
Un sistema che palesemente non funziona, posto come fonte di lucro per avidi privati a fronte di un servizio che si colloca fra il vergognoso e l'indegno: è questo il sistema ferroviario italiano. Guardando più a Nord, non sono tantissime cose (come spesso si pensa) che dovremmo apprendere dai vari tedeschi,scandinavi o inglesi, ma il settore dei trasporti dovrebbe, senza ombra di dubbio, prendere a esempio l'opera della DB o della OBB nei rispettivi paesi. Nemmeno loro saranno perfetti, ma qualcosa in più sembra sappiano fare.
Dino
Ogni tanto, però, ognuno di noi, mosso da non so quale spirito, è puntuale.
Trenitalia, invece, no.
Sono in piedi sulla banchina, lo spazio intorno è pulito e popolato da persone sorridenti che aspettano in ordine l'arrivo del treno delle 11:33. L'orologio della stazione segna le 11:30 e la locomotiva si presenta all'orizzonte. Poco dopo, insieme a un gruppo di altri passeggeri mi avvicino alle porte scorrevoli che si aprono, lasciando uscire dei viaggiatori giunti a destinazione. Salgo con calma i due gradini mentre una signora è aiutata da un ragazzo nel portare la sua valigia all'interno. Mi siedo in un vagone dai vetri trasparenti e illuminati dal sole, dopo aver appoggiato il mio zaino nell'apposito spazio libero. Presto si accomodano vicino a me altre tre persone e il treno parte. Sono le 11:33.
Un modo per non divenire preda della frustrazione e di quella rabbia che ti ribolle dentro, perché stai soffrendo un'ingiustizia e nessuno appare colpevole, è immaginare come idealmente sarebbe prendere un treno.
Invece, l'orologio della stazione (sempre che funzioni) segna le 11:49. Il treno non è puntuale e ogni cinque minuti quella simpatica voce automatica annuncia l'accrescersi del ritardo, quasi sfottendo i passeggeri in attesa con la vecchia provocazione "ci scusiamo per il disagio". I motivi non sono mai resi noti, se non nei rari casi in cui sono in atto i "lavori di potenziamento della tratta" che porteranno sicuramente a un "miglioramento del servizio per i clienti".
In seguito si sarà detto che ci sono stati problemi nella direzione, poi la centralina di Melzo, i lavori per l'Expo (non riesco a chiamarlo Expo, mi sembra il nome di un piccolo animale domestico, un po' maltrattato), l'infrastruttura ecc ecc. Il prossimo mese arriverà il pacchetto di scuse "Offerta Estate 2015". Non tradirà le attese, visto che i pacchetti autunno-inverno sono stati senz'altro validi.
La banchina è sporca e, appena arriverà quel maledetto aggeggio vecchio e trasandato, dovrò fare a gomitate per riuscire a entrarci. Se avrò la fortuna di sedermi, annegherò in una poltrona che porta ancora il sudore del fortunato che lì sedeva due settimane prima. Se avrò la fortuna di stare in piedi, affogherò nel sudore dei fortunati che lì sono stati poco fa.
La coincidenza è bella e andata, il biglietto ovviamente pagato e timbrato regolarmente, il rimborso non è contemplato.
Un sistema che palesemente non funziona, posto come fonte di lucro per avidi privati a fronte di un servizio che si colloca fra il vergognoso e l'indegno: è questo il sistema ferroviario italiano. Guardando più a Nord, non sono tantissime cose (come spesso si pensa) che dovremmo apprendere dai vari tedeschi,scandinavi o inglesi, ma il settore dei trasporti dovrebbe, senza ombra di dubbio, prendere a esempio l'opera della DB o della OBB nei rispettivi paesi. Nemmeno loro saranno perfetti, ma qualcosa in più sembra sappiano fare.
Dino
Un tentativo di poesia, mia e tua
Ldr, farewell
Sometimes
I can't seem to cope
I just dwell
That's when I miss
miss like hell
all the things
we don't have
So please ring
ring the bell
when you're sure
you can tell
us
no
more
trains
Anna
lunedì 4 maggio 2015
Mario Luzi, 11 settembre 2001
Si sono mescolati
in quella frenesia di morte
dell'estremo affronto i sangui,
l'arabo, l'ebreo,
il cristiano, l'indio.
E ora vi richiamerà
qualcuno ai vostri fasti.
Risorgete, risorgete,
non più torri, ma steli,
gigli di preghiera.
Avvenga per desiderio
di pace. Di pace vera.
venerdì 1 maggio 2015
Californication-Red Hot Chili Peppers
Psychic spies from China
Try to steal your mind elation
Little girls from Sweden
Dream of silver screen quotations
And if you want these kind of dreams
It's Californication
It's the edge of the world
And all of western civilisation
The sun may rise in the east
At least it settles in a final location
It's understood that Hollywood sells Californication
Pay your surgeon very well
To break the spell of aging
Celebrity skin is this your chin
Or is that war your waging?
First born unicorn
Hard core soft porn
Dream of Californication
Dream of Californication
Marry me, girl, be my fairy to the world
Be my very own constellation
A teenage bride with a baby inside
Getting high on information
And buy me a star on the boulevard
It's Californication
Space may be the final frontier
But it's made in the Hollywood basement
Cobain can you hear the spheres
Singing songs off Station To Station
And Alderaan's not far away
It's Californication
Born and raised by those who praise
Control of population. Everybody's been there
And I don't mean on vacation
First born unicorn
Hard core soft porn
Dream of Californication
Dream of Californication
Destruction leads to a very rough road
But it also breeds creation
And earthquakes are to a girl's guitar
They are just another good vibration.
And tidal waves couldn't save the world
From Californication
Pay your surgeon very well
To break the spell of aging
Celebrity skin is this your chin
Or is that war your waging
First born unicorn
Hard core soft porn
Dream of Californication
Dream of Californication
Kreuzberg: la bellezza del brutto
I romantici vagoni gialli e rossi sferrano le vecchie vie della U-Bahn: Jannowitz-brucke, Heinrich Heine-Strasse, Moritzplatz e, finalmente, Kottbusser Tor.
Aperte le porte della metropolitana e fatti i primi passi nella stazione sotto terra, si percepisce subito un'atmosfera diversa rispetto al resto della città: cinque poliziotti scrutano attentamente i passanti, sulle scale avanzi di cibo e voci sonanti provenienti dall'alto.
Salite le scale, la prima immagine di Kreuzberg è un mercato di frutta e verdura affollato prevalentemente da volti dai tratti orientali. Sotto i piedi cartoni e qualche arancia, dappertutto voci che alternano lingua turca e tedesca.
"Il quartiere degli anarchici e degli immigrati" è la definizione della guida turistica riguardo questo quartiere, così particolare e così diverso dalla restante Berlino.
Macchine parcheggiate in divieto di sosta, muri imbrattati, strade sporche e un'aria leggera di degrado sono i caratteri principali di questa piccola Istanbul nel cuore della Germania.
Passeggiando fra le vie si incontrano bambini che picchiano un pallone da calcio, in mezzo alla strada, contro un grigio muro, ornato da graffiti.
Nella zona, tanti piccoli locali che hanno avuto il (de)merito di attrarre negli ultimi anni anche turisti in un'area che per diversi decenni è stata popolata esclusivamente da lavoratori. Infatti, Kreuzberg nella mente dei tedeschi rievoca subito immagini di manifestazioni violente per i diritti dei lavoratori e celebrazioni del primo maggio spesso sopra le righe.
Nei negozi che si susseguono sulle strade si trovano valanghe di prodotti di provenienza tutt'altro che tedesca, ristoranti etnici ad ogni angolo e qualche vecchia libreria grigia, piena di polvere e vecchi libri sulla DDR e un'anziana signora che con gentilezza accoglie coloro che ci entrano.
Un negozio nascosto dietro una vecchia vetrina di legno andato propone articoli sportivi. Sportivi si fa per dire, in quanto tutto ciò che è in vendita riguarda solo ed esclusivamente il calcio. E nel caso cercaste una maglietta del Bayern, del Borussia o della stessa berlinese Hertha, siete lontani dal luogo in cui potreste trovarla. Qui potete trovare tutto, anche le mutande o i calzini, delle tre squadre di Istanbul o dell'unica di Trebisonda; e se voleste chiedere informazioni agli addetti riguardo qualcosa, vi risponderebbero in un tedesco stentato e nervoso.
Sui lati qualche locale piccolo, colmo di gente giovane che dibatte e discute, soprattutto alla sera. Questo è, infatti, anche il quartiere degli studenti, di quelli forse un po' più "particolari", più nervosi, più irritabili, più propensi a mandarvi a quel paese.
Un negozio intorno al quale rimbomba il punk anni '90 o quello ancora più puro degli anni precedenti espone una meravigliosa collezione di magliette. Il proprietario è fermo a parlare in inglese con altri due ragazzi, fumando una sigaretta e facendo valere la lunga cascata di capelli neri sulla propria schiena. Fra le magliette anche quella dell'Inter City Firm del West Ham. Collegamento chiaro con il gruppo di ragazzacci che per anni hanno controllato una delle aree più malfamate di Londra, l'est di Londra, sotto spoglie di hooligan che nel tempo libero seguivano il West Ham, creando problemi in tutti gli stadi d'Inghilterra.
A pensarci bene, a Kreuzberg non c'è nulla di bello: c'è un'atmosfera calma e un po' cupa respirata quotidianamente da gente talvolta emarginata, talvolta arrabbiata. Un quartiere diverso, staccato dal resto, immerso in un mondo suo che non rispetta i canoni e le regole di ciò che lo circonda. Ed è forse questo suo essere particolare, diverso e unico a renderlo così affascinante ai miei occhi.
Dino
Aperte le porte della metropolitana e fatti i primi passi nella stazione sotto terra, si percepisce subito un'atmosfera diversa rispetto al resto della città: cinque poliziotti scrutano attentamente i passanti, sulle scale avanzi di cibo e voci sonanti provenienti dall'alto.
Salite le scale, la prima immagine di Kreuzberg è un mercato di frutta e verdura affollato prevalentemente da volti dai tratti orientali. Sotto i piedi cartoni e qualche arancia, dappertutto voci che alternano lingua turca e tedesca.
"Il quartiere degli anarchici e degli immigrati" è la definizione della guida turistica riguardo questo quartiere, così particolare e così diverso dalla restante Berlino.
Macchine parcheggiate in divieto di sosta, muri imbrattati, strade sporche e un'aria leggera di degrado sono i caratteri principali di questa piccola Istanbul nel cuore della Germania.
Passeggiando fra le vie si incontrano bambini che picchiano un pallone da calcio, in mezzo alla strada, contro un grigio muro, ornato da graffiti.
Nella zona, tanti piccoli locali che hanno avuto il (de)merito di attrarre negli ultimi anni anche turisti in un'area che per diversi decenni è stata popolata esclusivamente da lavoratori. Infatti, Kreuzberg nella mente dei tedeschi rievoca subito immagini di manifestazioni violente per i diritti dei lavoratori e celebrazioni del primo maggio spesso sopra le righe.
Nei negozi che si susseguono sulle strade si trovano valanghe di prodotti di provenienza tutt'altro che tedesca, ristoranti etnici ad ogni angolo e qualche vecchia libreria grigia, piena di polvere e vecchi libri sulla DDR e un'anziana signora che con gentilezza accoglie coloro che ci entrano.
Un negozio nascosto dietro una vecchia vetrina di legno andato propone articoli sportivi. Sportivi si fa per dire, in quanto tutto ciò che è in vendita riguarda solo ed esclusivamente il calcio. E nel caso cercaste una maglietta del Bayern, del Borussia o della stessa berlinese Hertha, siete lontani dal luogo in cui potreste trovarla. Qui potete trovare tutto, anche le mutande o i calzini, delle tre squadre di Istanbul o dell'unica di Trebisonda; e se voleste chiedere informazioni agli addetti riguardo qualcosa, vi risponderebbero in un tedesco stentato e nervoso.
Sui lati qualche locale piccolo, colmo di gente giovane che dibatte e discute, soprattutto alla sera. Questo è, infatti, anche il quartiere degli studenti, di quelli forse un po' più "particolari", più nervosi, più irritabili, più propensi a mandarvi a quel paese.
Un negozio intorno al quale rimbomba il punk anni '90 o quello ancora più puro degli anni precedenti espone una meravigliosa collezione di magliette. Il proprietario è fermo a parlare in inglese con altri due ragazzi, fumando una sigaretta e facendo valere la lunga cascata di capelli neri sulla propria schiena. Fra le magliette anche quella dell'Inter City Firm del West Ham. Collegamento chiaro con il gruppo di ragazzacci che per anni hanno controllato una delle aree più malfamate di Londra, l'est di Londra, sotto spoglie di hooligan che nel tempo libero seguivano il West Ham, creando problemi in tutti gli stadi d'Inghilterra.
A pensarci bene, a Kreuzberg non c'è nulla di bello: c'è un'atmosfera calma e un po' cupa respirata quotidianamente da gente talvolta emarginata, talvolta arrabbiata. Un quartiere diverso, staccato dal resto, immerso in un mondo suo che non rispetta i canoni e le regole di ciò che lo circonda. Ed è forse questo suo essere particolare, diverso e unico a renderlo così affascinante ai miei occhi.
Dino
martedì 21 aprile 2015
"I due amici" di Guy de Maupassant
Parigi era bloccata, affamata, rantolante. Sui tetti i passeri diminuivano e le fogne si stavano spopolando. Si mangiava qualsiasi cosa.
In una limpida mattinata di gennaio Morrisot, orologiaio di professione e guardia nazionale per necessità, stava passeggiando tristemente sul boulevard di circonvallazione, con le mani nelle tasche dei calzoni della divisa e la pancia vuota, quando si fermò di botto davanti a un suo confratello, nel quale riconobbe un amico. Era il signor Sauvage, una conoscenza fatta sulla sponda del fiume.
Tutte le domeniche, prima della guerra, Morissot partiva all'alba, con una canna di bambù in mano, e un barattolo di latta a tracolla. Prendeva il treno d'Argenteuil, scendeva a Colombes e arrivava a piedi fino all'isola di Marante. Appena giunto nel luogo dei suoi sogni cominciava a pescare, e pescava fino a buio. Tutte le domeniche s'incontrava laggiù con un ometto grasso e gioviale, il signor Sauvage, merciaio in Via della Madonna di Loreto, anche lui fanatico pescatore. Spesso stavano una mezza giornata a fianco a fianco, con la lenza in mano e i piedi penzoloni sull'acqua; erano diventati amici.
Certi giorni non parlavano affatto; altre volte facevano quattro chiacchiere. Ma andavano benissimo d'accordo anche senza dir nulla, poiché avevano gli stessi gusti e una identica sensibilità.
Nelle mattine di primavera, verso le dieci, quando il sole ringiovanito faceva galleggiare sul fiume tranquillo quella nebbiolina che scorre insieme all'acqua,e riversava sulla schiena dei due accaniti pescatori il benefico calore della nuova stagione, Morissot diceva talvolta al suo vicino: - Che dolcezza, eh? - e Sauvage rispondeva: - Non c'è nulla di meglio. - Questo bastava perché si capissero e si stimassero.
In autunno, verso la fine della giornata, quando il cielo insanguinato dal sole al tramonto rifletteva nell'acqua le nuvole scarlatte,imporporava tutto il fiume, infiammava l'orizzonte, rendeva incandescenti e dorava, intorno a loro, gli alberi già imbionditi, e frementi del brivido dell'inverno, Sauvage guardava sorridendo Morissot, e diceva: - Che spettacolo!- E Morissot rispondeva, senza levar gli occhi dal suo sughero: - Meglio del boulevard, no? -
Appena si furono riconosciuti, si strinsero energicamente la mano, commossi di ritrovarsi in tempi così mutati. Sospirando, Sauvage mormorò: - Quante ne son successe... - Morissot, serio serio, gemette: - E che tempaccio! Questa è la prima bella giornata dell'anno.
Difatti il cielo era azzurro e luminoso.
S'incamminarono l'uno accanto all'altro, tristi e pensierosi. Morissot continuò: - E la pesca, eh? che bel ricordo!
- Quando ci torneremo? - chiese Sauvage.
Entrarono in un caffeuccio e presero insieme l'aperitivo; dopo ricominciarono a passeggiare sul marciapiede.
D'un tratto Morissot si fermò: - Un altro gocciolino? - Sauvage approvò: - Ai vostri ordini. - Entrarono in un caffè.
Si sentivano storditi uscendo, turbati come chiunque a digiuno si riempia la pancia d'alcool.
L'aria era dolce. Un venticello carezzevole solleticava i loro visi.
L'aria tiepida finì di ubriacare Sauvage, che si fermò: - E se ci andassimo?
- Dove?
- A pescare.
- E dove?
- Alla nostra isola. Gli avamposti francesi sono dopo Colombes. Io conosco il colonnello Dumolin; ci farà passare senza difficoltà.
Morissot fremeva di desiderio: - Sicuro, ci sto. - E si lasciarono per andare a prendere i loro arnesi.
Un'ora dopo camminavano, accanto, sulla strada maestra; giunsero alla villa occupata dal colonnello. Alla loro richiesta costui sorrise e acconsentì al capriccio. Si rimisero in cammino forniti di un lasciapassare.
Ben presto oltrepassarono gli avamposti, attraversarono Colombes abbandonata, e si trovarono sul margine dei piccoli vigneti che scendono verso la Senna. Erano circa le undici.
Di fronte, il villaggio di Argenteuil pareva morto. Le alture di Orgemont e di Sannois dominavano il paese. La grande pianura che arriva fino a Nantes era completamente vuota, i ciliegi spogli e la terra grigia.
Sauvage mostrando a dito le alture mormorò: - Lassù ci sono i prussiani. - I due amici si sentivano paralizzati dall'inquietudine davanti al paese deserto.
I prussiani! Non li avevano mai visti, ma erano mesi che li sentivano, intorno a Parigi, distruggere la Francia, saccheggiare, massacrare, affamare, invisibili e onnipotenti. Un superstizioso terrore s'aggiungeva al loro odio per quel popolo sconosciuto e vincitore.
- E se li incontrassimo? - balbettò Morissot.
Sauvage rispose, con la spavalderia parigina sempre viva nonostante tutto:
- Gli offriremo un po' di fritto.
Tuttavia esitavano a inoltrarsi nella campagna, intimiditi dal gran silenzio.
Infine Sauvage si decise: - Via, andiamo; però attenti...
Scesero in un vigneto, chinati in due, strisciando, approfittando dei cespugli per coprirsi, con lo sguardo inquieto, e l'orecchio teso.
Dovevano ancora attraversare una striscia di terra nuda, per raggiungere la sponda del fiume. Si misero a correre; e appena furono arrivati alla riva, si rannicchiarono tra le canne secche.
Morissot incollò l'orecchio a terra per sentire se qualcuno camminasse d'intorno. Non sentì nulla. Erano soli, proprio soli.
Rinfrancati, cominciarono a pescare.
Di fronte a loro, l'isola Marante, abbandonata, li nascondeva alla vista dell'altra riva. La piccola trattoria era chiusa, pareva abbandonata da anni.
Sauvage pescò il primo ghiozzo, Morissot il secondo, e continuamente essi tiravano su le lenze con una bestiolina d'argento che guizzava in cima al filo: una vera pesca miracolosa.
Mettevano delicatamente i pesci dentro una borsa di rete a maglie molto fitte, che era immersa nell'acqua, ai loro piedi. E si sentivano prendere da una deliziosa gioia, la gioia di chi ritrova un piacere prediletto del quale è rimasto privo per parecchio tempo.
Il buon sole scaldava dolcemente le loro spalle; non sentivano più nulla; non pensavano più a nulla, il resto del mondo non esisteva più: pescavano.
A un tratto un sordo rumore che pareva venir di sottoterra fece tremare il suolo. Il cannone ricominciava a tuonare.
Morissot volse la testa e vide, al disopra della riva, verso destra il gran profilo del Mont-Valerién con un pennacchio bianco sulla fronte: la schiuma della polvere che aveva sputato allora allora.
Subito un altro schizzo di fumo partì dalla cima della fortezza: dopo alcuni istanti si sentì il brontolio di un'altra detonazione.
Altre ancora ne seguirono: ogni tanto la montagna alitava il suo fiato mortale, soffiava i vapori che si levavano pian piano nel cielo calmo, formando una nuvola sopra la cima.
Sauvage alzò le spalle: - Eccoli che ricominciano - disse. Morissot, il quale stava guardando con ansietà il piumino del suo sughero immergersi senza interruzione, fu preso da un'improvvisa collera di uomo pacifico, contro quegli arrabbiati che combattevano in quel modo e brontolò: - Bisogna essere dei veri imbecilli per ammazzarsi così!...
- Son peggio delle bestie - rispose Sauvage.
E Morissot, che aveva pescato allora un'argentina , dichiarò: - Purtroppo sarà sempre così, fintanto che ci saranno i governi...
Sauvage lo fermò: - La Repubblica non avrebbe dichiarato guerra...
- Coi re c'è la guerra all'interno; con la repubblica c'è la guerra all'esterno, - lo interruppe a sua volta Morissot.
Cominciarono tranquillamente a discutere, sbrogliando le grandi questioni politiche col loro sano criterio di uomini quieti e limitati, trovandosi d'accordo su questo: che non sarebbero mai stati liberi. E il Mont-Valerién tuonava senza quiete, demolendo, un colpo dopo l'altro, le case francesi, macinando le strade, sfracellando la gente, troncando tanti sogni, tante gioie attese, tante felicità sperate; aprendo i cuori delle donne, i cuori delle ragazze, i cuori delle madri, laggiù, in altri paesi, a sofferenze infinite.
- Così è la vita - disse Sauvage.
- Piuttosto dite che è la morte, - aggiunse ridendo Morissot.
Trasalirono, atterriti, sentendo dei passi alle loro spalle; voltatisi, videro in piedi, dietro a loro, quattro uomini, quattro uomini armati e barbuti, vestiti con la livrea, come domestici, che portavano in capo dei berretti schiacciati, e li prendevano di mira coi fucili.
Le lenze sfuggirono dalle loro mani e cominciarono a seguire la corrente.
In capo a pochi istanti erano stati presi, legati, trascinati via, gettati in una barca, e trasportati nell'isola. Dietro la casa che credevano abbandonata videro una ventina di soldati tedeschi
Una specie di gigante peloso, il quale, a cavalcioni d'una sedia, stava fumando una gran pipa di porcellana, chiese in ottimo francese: - E così, signori, avete fatto buona pesca?
Un soldato depose ai piedi dell'ufficiale la rete piena di pesci, che s'era curato di portar via. Il prussiano sorrise: - Ah! a quanto vedo vi stava andando bene... Ma ora dobbiamo parlar d'altro. Statemi a sentire e non vi confondete.
<Per me siete due spie mandate ad appostarmi. Allora io vi prendo e vi fucilo. Facevate finta di pescare, per nascondere meglio le vostre intenzioni. Siete caduti in mano mia, e tanto peggio per voi; siamo in guerra.>
<Però, siccome venite dagli avamposti, sicuramente dovete sapere la parola d'ordine, per poter rientrare. Ditemi questa parola d'ordine, e vi lascio liberi>.
I due amici, l'uno vicino all'altro, tacevano, lividi, con le mani scosse da un leggero tremolio nervoso.
L'ufficiale continuò: - Non lo saprà nessuno, e voi potrete tornarvene in santa pace. Il segreto sparirà insieme a voi. Se invece rifiutate, morirete, e subito. Scegliete.
Continuarono a restare immobili, senza aprir bocca.
Il prussiano, sempre calmo, continuò, tendendo una mano verso il fiume: - Pensate che fra cinque minuti sarete in fondo all'acqua! Fra cinque minuti! Avrete dei parenti, no?
Il Mont-Valerién seguitava a brontolare.
I due pescatori erano ancora immobili e silenziosi. Il tedesco diede alcuni ordini, nella sua lingua. Poi spostò la sedia, per non essere troppo vicino ai prigionieri; e dodici uomini si andarono a mettere a venti passi di distanza, nella posizione di pied-arm.
L'ufficiale riprese: - Vi do un minuto di tempo, non un secondo di più.
Si alzò d'improvviso avvicinandosi ai due francesi, e afferrato Morissot per il braccio, lo trascinò in disparte e gli disse a bassavoce: - Presto, parola d'ordine! Il vostro compagno non ne saprà nulla; farò finta di impietosirmi.
Morissot non rispose.
Allora il prussiano prese Sauvage e gli fece la stessa domanda.
Neanche Sauvage rispose.
Si ritrovarono un'altra volta fianco a fianco.
L'ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.
Lo sguardo di Morissot cadde casualmente nella rete piena di ghiozzi che era rimasta sull'erba a qualche passo da lui.
Un raggio di sole faceva luccicare i pesci ammassati, che si muovevano ancora. Fu preso dallo smarrimento. Nonostante i suoi sforzi gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Balbettò: - Addio, signor Sauvage.
Sauvage rispose: - Addio, signor Morissot.
Si strinsero la mano, scossi da capo a piedi da brividi irreprimibili. L'ufficiale gridò: - Fuoco!
I dodici colpi parvero un colpo solo.
Sauvage cadde di schianto con la faccia contro terra. Morissot, più alto, oscillò, girò su se stesso, e cadde di traverso sul suo compagno, col viso rivolto al cielo, mentre dalla giacca forata sul petto gli usciva un fiotto di sangue.
Il tedesco diede altri ordini.
I suoi uomini si dispersero , e tornarono con corde e pietre, che appesero ai piedi dei morti; poi li trasportarono sulla riva.
Il Mont-Valerién, incappucciato ora da una montagna di fumo, non smetteva di brontolare.
Due soldati afferrarono Morissot per la testa e per le gambe; altri due presero Sauvage nello stesso modo. Per qualche istante i due corpi furono fatti oscillare con forza, e poi, lanciati lontano, descrissero una curva e caddero ritti nel fiume, poiché le pietre erano legate ai piedi.
L'acqua schizzò, ribollì, fremette e si calmò, mentre piccole onde giungevano sulle sponde.
Un po' di sangue galleggiava sull'acqua.
L'ufficiale, sempre sereno, disse sottovoce: - I pesci finiranno di sistemarli.
Poi si diresse verso la casa.
A un tratto vide fra l'erba la reticella coi pesci. La raccolse, la osservò, sorrise e gridò: - Wilhelm!
Un soldato accorse. Il prussiano ordinò, gettandogli la pesca dei fucilati: - Fammi friggere subito questi animaletti finché son vivi. Saranno deliziosi.
E riprese a fumar la pipa.
In una limpida mattinata di gennaio Morrisot, orologiaio di professione e guardia nazionale per necessità, stava passeggiando tristemente sul boulevard di circonvallazione, con le mani nelle tasche dei calzoni della divisa e la pancia vuota, quando si fermò di botto davanti a un suo confratello, nel quale riconobbe un amico. Era il signor Sauvage, una conoscenza fatta sulla sponda del fiume.
Tutte le domeniche, prima della guerra, Morissot partiva all'alba, con una canna di bambù in mano, e un barattolo di latta a tracolla. Prendeva il treno d'Argenteuil, scendeva a Colombes e arrivava a piedi fino all'isola di Marante. Appena giunto nel luogo dei suoi sogni cominciava a pescare, e pescava fino a buio. Tutte le domeniche s'incontrava laggiù con un ometto grasso e gioviale, il signor Sauvage, merciaio in Via della Madonna di Loreto, anche lui fanatico pescatore. Spesso stavano una mezza giornata a fianco a fianco, con la lenza in mano e i piedi penzoloni sull'acqua; erano diventati amici.
Certi giorni non parlavano affatto; altre volte facevano quattro chiacchiere. Ma andavano benissimo d'accordo anche senza dir nulla, poiché avevano gli stessi gusti e una identica sensibilità.
Nelle mattine di primavera, verso le dieci, quando il sole ringiovanito faceva galleggiare sul fiume tranquillo quella nebbiolina che scorre insieme all'acqua,e riversava sulla schiena dei due accaniti pescatori il benefico calore della nuova stagione, Morissot diceva talvolta al suo vicino: - Che dolcezza, eh? - e Sauvage rispondeva: - Non c'è nulla di meglio. - Questo bastava perché si capissero e si stimassero.
In autunno, verso la fine della giornata, quando il cielo insanguinato dal sole al tramonto rifletteva nell'acqua le nuvole scarlatte,imporporava tutto il fiume, infiammava l'orizzonte, rendeva incandescenti e dorava, intorno a loro, gli alberi già imbionditi, e frementi del brivido dell'inverno, Sauvage guardava sorridendo Morissot, e diceva: - Che spettacolo!- E Morissot rispondeva, senza levar gli occhi dal suo sughero: - Meglio del boulevard, no? -
Appena si furono riconosciuti, si strinsero energicamente la mano, commossi di ritrovarsi in tempi così mutati. Sospirando, Sauvage mormorò: - Quante ne son successe... - Morissot, serio serio, gemette: - E che tempaccio! Questa è la prima bella giornata dell'anno.
Difatti il cielo era azzurro e luminoso.
S'incamminarono l'uno accanto all'altro, tristi e pensierosi. Morissot continuò: - E la pesca, eh? che bel ricordo!
- Quando ci torneremo? - chiese Sauvage.
Entrarono in un caffeuccio e presero insieme l'aperitivo; dopo ricominciarono a passeggiare sul marciapiede.
D'un tratto Morissot si fermò: - Un altro gocciolino? - Sauvage approvò: - Ai vostri ordini. - Entrarono in un caffè.
Si sentivano storditi uscendo, turbati come chiunque a digiuno si riempia la pancia d'alcool.
L'aria era dolce. Un venticello carezzevole solleticava i loro visi.
L'aria tiepida finì di ubriacare Sauvage, che si fermò: - E se ci andassimo?
- Dove?
- A pescare.
- E dove?
- Alla nostra isola. Gli avamposti francesi sono dopo Colombes. Io conosco il colonnello Dumolin; ci farà passare senza difficoltà.
Morissot fremeva di desiderio: - Sicuro, ci sto. - E si lasciarono per andare a prendere i loro arnesi.
Un'ora dopo camminavano, accanto, sulla strada maestra; giunsero alla villa occupata dal colonnello. Alla loro richiesta costui sorrise e acconsentì al capriccio. Si rimisero in cammino forniti di un lasciapassare.
Ben presto oltrepassarono gli avamposti, attraversarono Colombes abbandonata, e si trovarono sul margine dei piccoli vigneti che scendono verso la Senna. Erano circa le undici.
Di fronte, il villaggio di Argenteuil pareva morto. Le alture di Orgemont e di Sannois dominavano il paese. La grande pianura che arriva fino a Nantes era completamente vuota, i ciliegi spogli e la terra grigia.
Sauvage mostrando a dito le alture mormorò: - Lassù ci sono i prussiani. - I due amici si sentivano paralizzati dall'inquietudine davanti al paese deserto.
I prussiani! Non li avevano mai visti, ma erano mesi che li sentivano, intorno a Parigi, distruggere la Francia, saccheggiare, massacrare, affamare, invisibili e onnipotenti. Un superstizioso terrore s'aggiungeva al loro odio per quel popolo sconosciuto e vincitore.
- E se li incontrassimo? - balbettò Morissot.
Sauvage rispose, con la spavalderia parigina sempre viva nonostante tutto:
- Gli offriremo un po' di fritto.
Tuttavia esitavano a inoltrarsi nella campagna, intimiditi dal gran silenzio.
Infine Sauvage si decise: - Via, andiamo; però attenti...
Scesero in un vigneto, chinati in due, strisciando, approfittando dei cespugli per coprirsi, con lo sguardo inquieto, e l'orecchio teso.
Dovevano ancora attraversare una striscia di terra nuda, per raggiungere la sponda del fiume. Si misero a correre; e appena furono arrivati alla riva, si rannicchiarono tra le canne secche.
Morissot incollò l'orecchio a terra per sentire se qualcuno camminasse d'intorno. Non sentì nulla. Erano soli, proprio soli.
Rinfrancati, cominciarono a pescare.
Di fronte a loro, l'isola Marante, abbandonata, li nascondeva alla vista dell'altra riva. La piccola trattoria era chiusa, pareva abbandonata da anni.
Sauvage pescò il primo ghiozzo, Morissot il secondo, e continuamente essi tiravano su le lenze con una bestiolina d'argento che guizzava in cima al filo: una vera pesca miracolosa.
Mettevano delicatamente i pesci dentro una borsa di rete a maglie molto fitte, che era immersa nell'acqua, ai loro piedi. E si sentivano prendere da una deliziosa gioia, la gioia di chi ritrova un piacere prediletto del quale è rimasto privo per parecchio tempo.
Il buon sole scaldava dolcemente le loro spalle; non sentivano più nulla; non pensavano più a nulla, il resto del mondo non esisteva più: pescavano.
A un tratto un sordo rumore che pareva venir di sottoterra fece tremare il suolo. Il cannone ricominciava a tuonare.
Morissot volse la testa e vide, al disopra della riva, verso destra il gran profilo del Mont-Valerién con un pennacchio bianco sulla fronte: la schiuma della polvere che aveva sputato allora allora.
Subito un altro schizzo di fumo partì dalla cima della fortezza: dopo alcuni istanti si sentì il brontolio di un'altra detonazione.
Altre ancora ne seguirono: ogni tanto la montagna alitava il suo fiato mortale, soffiava i vapori che si levavano pian piano nel cielo calmo, formando una nuvola sopra la cima.
Sauvage alzò le spalle: - Eccoli che ricominciano - disse. Morissot, il quale stava guardando con ansietà il piumino del suo sughero immergersi senza interruzione, fu preso da un'improvvisa collera di uomo pacifico, contro quegli arrabbiati che combattevano in quel modo e brontolò: - Bisogna essere dei veri imbecilli per ammazzarsi così!...
- Son peggio delle bestie - rispose Sauvage.
E Morissot, che aveva pescato allora un'argentina , dichiarò: - Purtroppo sarà sempre così, fintanto che ci saranno i governi...
Sauvage lo fermò: - La Repubblica non avrebbe dichiarato guerra...
- Coi re c'è la guerra all'interno; con la repubblica c'è la guerra all'esterno, - lo interruppe a sua volta Morissot.
Cominciarono tranquillamente a discutere, sbrogliando le grandi questioni politiche col loro sano criterio di uomini quieti e limitati, trovandosi d'accordo su questo: che non sarebbero mai stati liberi. E il Mont-Valerién tuonava senza quiete, demolendo, un colpo dopo l'altro, le case francesi, macinando le strade, sfracellando la gente, troncando tanti sogni, tante gioie attese, tante felicità sperate; aprendo i cuori delle donne, i cuori delle ragazze, i cuori delle madri, laggiù, in altri paesi, a sofferenze infinite.
- Così è la vita - disse Sauvage.
- Piuttosto dite che è la morte, - aggiunse ridendo Morissot.
Trasalirono, atterriti, sentendo dei passi alle loro spalle; voltatisi, videro in piedi, dietro a loro, quattro uomini, quattro uomini armati e barbuti, vestiti con la livrea, come domestici, che portavano in capo dei berretti schiacciati, e li prendevano di mira coi fucili.
Le lenze sfuggirono dalle loro mani e cominciarono a seguire la corrente.
In capo a pochi istanti erano stati presi, legati, trascinati via, gettati in una barca, e trasportati nell'isola. Dietro la casa che credevano abbandonata videro una ventina di soldati tedeschi
Una specie di gigante peloso, il quale, a cavalcioni d'una sedia, stava fumando una gran pipa di porcellana, chiese in ottimo francese: - E così, signori, avete fatto buona pesca?
Un soldato depose ai piedi dell'ufficiale la rete piena di pesci, che s'era curato di portar via. Il prussiano sorrise: - Ah! a quanto vedo vi stava andando bene... Ma ora dobbiamo parlar d'altro. Statemi a sentire e non vi confondete.
<Per me siete due spie mandate ad appostarmi. Allora io vi prendo e vi fucilo. Facevate finta di pescare, per nascondere meglio le vostre intenzioni. Siete caduti in mano mia, e tanto peggio per voi; siamo in guerra.>
<Però, siccome venite dagli avamposti, sicuramente dovete sapere la parola d'ordine, per poter rientrare. Ditemi questa parola d'ordine, e vi lascio liberi>.
I due amici, l'uno vicino all'altro, tacevano, lividi, con le mani scosse da un leggero tremolio nervoso.
L'ufficiale continuò: - Non lo saprà nessuno, e voi potrete tornarvene in santa pace. Il segreto sparirà insieme a voi. Se invece rifiutate, morirete, e subito. Scegliete.
Continuarono a restare immobili, senza aprir bocca.
Il prussiano, sempre calmo, continuò, tendendo una mano verso il fiume: - Pensate che fra cinque minuti sarete in fondo all'acqua! Fra cinque minuti! Avrete dei parenti, no?
Il Mont-Valerién seguitava a brontolare.
I due pescatori erano ancora immobili e silenziosi. Il tedesco diede alcuni ordini, nella sua lingua. Poi spostò la sedia, per non essere troppo vicino ai prigionieri; e dodici uomini si andarono a mettere a venti passi di distanza, nella posizione di pied-arm.
L'ufficiale riprese: - Vi do un minuto di tempo, non un secondo di più.
Si alzò d'improvviso avvicinandosi ai due francesi, e afferrato Morissot per il braccio, lo trascinò in disparte e gli disse a bassavoce: - Presto, parola d'ordine! Il vostro compagno non ne saprà nulla; farò finta di impietosirmi.
Morissot non rispose.
Allora il prussiano prese Sauvage e gli fece la stessa domanda.
Neanche Sauvage rispose.
Si ritrovarono un'altra volta fianco a fianco.
L'ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.
Lo sguardo di Morissot cadde casualmente nella rete piena di ghiozzi che era rimasta sull'erba a qualche passo da lui.
Un raggio di sole faceva luccicare i pesci ammassati, che si muovevano ancora. Fu preso dallo smarrimento. Nonostante i suoi sforzi gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Balbettò: - Addio, signor Sauvage.
Sauvage rispose: - Addio, signor Morissot.
Si strinsero la mano, scossi da capo a piedi da brividi irreprimibili. L'ufficiale gridò: - Fuoco!
I dodici colpi parvero un colpo solo.
Sauvage cadde di schianto con la faccia contro terra. Morissot, più alto, oscillò, girò su se stesso, e cadde di traverso sul suo compagno, col viso rivolto al cielo, mentre dalla giacca forata sul petto gli usciva un fiotto di sangue.
Il tedesco diede altri ordini.
I suoi uomini si dispersero , e tornarono con corde e pietre, che appesero ai piedi dei morti; poi li trasportarono sulla riva.
Il Mont-Valerién, incappucciato ora da una montagna di fumo, non smetteva di brontolare.
Due soldati afferrarono Morissot per la testa e per le gambe; altri due presero Sauvage nello stesso modo. Per qualche istante i due corpi furono fatti oscillare con forza, e poi, lanciati lontano, descrissero una curva e caddero ritti nel fiume, poiché le pietre erano legate ai piedi.
L'acqua schizzò, ribollì, fremette e si calmò, mentre piccole onde giungevano sulle sponde.
Un po' di sangue galleggiava sull'acqua.
L'ufficiale, sempre sereno, disse sottovoce: - I pesci finiranno di sistemarli.
Poi si diresse verso la casa.
A un tratto vide fra l'erba la reticella coi pesci. La raccolse, la osservò, sorrise e gridò: - Wilhelm!
Un soldato accorse. Il prussiano ordinò, gettandogli la pesca dei fucilati: - Fammi friggere subito questi animaletti finché son vivi. Saranno deliziosi.
E riprese a fumar la pipa.
lunedì 20 aprile 2015
Liberland: l'ultima nazione d'Europa
Il 13.04.2015 un coraggioso e non meno simpatico signore ceco ha acquisito un isolato lembo di terra, situato sul sempre movimentato confine che tenta da decenni, con fortune alterne, di separare le pacifiche genti di Croazia e Serbia.
In un'area in cui la follia (positiva o negativa che sia) è all'ordine del giorno, evidentemente mosso dagli stessi venti che nel corso della storia hanno portato a separazioni, unioni, autodeterminazioni e spettacolari guerre in formato "tutti contro tutti", accompagnate da inenarrabili crimini e violenze, il signor Vit Jedlicka ha deciso di proclamare la Repubblica del Liberland (Free Republic of Liberland).
Una notizia che di primo acchito avrebbe potuto apparire come la tradizionale "bufala", se non fosse stata riportata e confermata dai principali media della regione.
Insomma, il buon Vit è venuto a conoscenza di una piccola landa di terra (7 chilometri quadrati) a Est di Zagabria, incredibilmente non rivendicata da nessuna delle due "sorelle" balcaniche, le quali in passato hanno dedicato un'attenzione ossessiva al contendersi tutto ciò che c'era di contendibile.
Pertanto, questo spazio costituisce una "terra di nessuno" che, secondo le teorie di Jedlicka, permetterebbe la creazione di uno nuovo stato autonomo e riconosciuto a tutti gli effetti.
In un'area in cui la follia (positiva o negativa che sia) è all'ordine del giorno, evidentemente mosso dagli stessi venti che nel corso della storia hanno portato a separazioni, unioni, autodeterminazioni e spettacolari guerre in formato "tutti contro tutti", accompagnate da inenarrabili crimini e violenze, il signor Vit Jedlicka ha deciso di proclamare la Repubblica del Liberland (Free Republic of Liberland).
Una notizia che di primo acchito avrebbe potuto apparire come la tradizionale "bufala", se non fosse stata riportata e confermata dai principali media della regione.
Insomma, il buon Vit è venuto a conoscenza di una piccola landa di terra (7 chilometri quadrati) a Est di Zagabria, incredibilmente non rivendicata da nessuna delle due "sorelle" balcaniche, le quali in passato hanno dedicato un'attenzione ossessiva al contendersi tutto ciò che c'era di contendibile.
Pertanto, questo spazio costituisce una "terra di nessuno" che, secondo le teorie di Jedlicka, permetterebbe la creazione di uno nuovo stato autonomo e riconosciuto a tutti gli effetti.
Con l'aiuto di alcuni fedeli compari, Jedlicka ha già formulato una Costituzione e creato un'emblema per il proprio giard... stato, del quale è egli stesso diventato Presidente, probabilmente in seguito a libere elezioni e con l'appoggio di una larga maggioranza...
Inoltre, il nuovo Presidente ha invitato chiunque fosse interessato a compilare un'applicazione per ottenere la cittadinanza del Liberland e contribuire alla formazione di questa nuova realtà. Le uniche prerogative sono il il non avere legami con ideologie comuniste o naziste (il che esclude automaticamente il 90% delle genti balcaniche) e il rispetto del motto "Vivi e lascia vivere" (il che dà grandi possibilità alle teenager che condividono, ogni giorno, i propri pensieri con Facebook). Per più informazioni: liberland.org
Doveroso è ricordare i trascorsi politici di Vit Jedlicka nella Repubblica Ceca. Infatti, il neo Presidente ha un passato come membro di un piccolo partito del centro-destra liberale con il quale ha avuto successo nella regione Hradec-Kralove (sì, lo so che la specificazione è inutile), della quale è effettivamente stato Presidente.
Si è presentato come personaggio abile nel campo diplomatico, annunciando che presto invierà documenti ufficiali agli organi di Zagabria e Belgrado, dai quali si aspetta un primo sostegno e riconoscimento. Pensiero dal quale si evince facilmente che il simpatico Vit non abbia ben compreso con quali soggetti e mentalità si trovi a "dialogare" (verbo praticamente non utilizzato nelle lingue della zona).
Finora, l'unico effetto delle sue azioni è stato un repentino risveglio dei gruppi nazionalisti croati che hanno cominciato a rivendicare quei sette cespugli, oggi chiamati Liberland. Probabilmente l'idea che pervade le brillanti menti di questi personaggi ha dato forma alla definizione di Liberland come "territorio da secoli popolato da marmotte e scoiattoli croati", che loro sono in dovere di difendere. Sono sorti anche alcuni gruppi Facebook sul tema, certamente da visitare. Vi si trovano alti spunti intellettuali che potrebbero invogliare chiunque di noi a imbracciare le armi per difendere i 7 chilometri quadrati di territorio croato minacciati da Jedlicka. Per maggiori delucidazioni: https://www.facebook.com/pages/Hrvatski-Liberland/1578799052406173
Simile reazione sull'altra sponda del Danubio, con l'unica differenza riguardante l'etnia delle marmotte e soprattutto degli scoiattoli che sarebbero, a loro dire, di sangue serbo.
Visto che l'ultima guerra è stranamente lontana già venti anni e più, il Liberland rappresenta il tanto atteso pretesto per dare inizio all'ennesimo spargimento di sangue nell'area? Oppure il signor Jedlicka riuscirà nell'intento di creare una piccola nazione liberale che, nonostante le mille perplessità che ora genera, sarà comunque lo stato con il più alto tasso di qualità della vita dei Balcani?
Con ogni probabilità nessuna di queste due ipotesi si realizzerà, ma in ogni caso è doveroso un grazie al signor Jedlicka per averci concesso questa quantomeno insolita autoproclamazione di un nuovo stato.
Dino
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