Due uomini tanto lontani, due storie tanto diverse, eppure tanto affini. Mio padre si era avvicinato alla pallacanestro quando aveva cominciato l'università. Era il 1988, erano gli anni d'oro della pallacanestro dell'Ex Iugoslavia. Gli anni in cui la Jugoplastika Spalato scriveva per sempre il proprio nome nella storia del basket europeo con Kukoč e Radja che portavano per tre anni di seguito la squadra sul tetto d'Europa. Gli anni in cui la Nazionale iugoslava diventava due volte campione d'Europa, campione del mondo e prendeva l'argento alle Olimpiadi di Seoul. Il tutto giungeva dopo che il Cibona Zagabria guidato da Petrović era stato due anni consecutivi campione d'Europa e dopo che il Mozart di Sebenico aveva già incantato l'Europa intera e si preparava a fare altrettanto in NBA. Il tutto prima che la Iugoslavia diventasse terra di morte e guerra.
Fra tutte queste luci di gloria, oggi non so se e chi tifasse mio padre. Non so se seguisse il Cibona, la Jugoplastika o il Bosna, squadra della sua Sarajevo (tanto per cambiare campione d'Europa 1979 sulle ali di Delibašić). So di una vaga simpatia per i Lakers, a detta di mia madre, ma so per certo che l'idolo di una vita, l'idolo assoluto e il primo suo riferimento era Dražen Petrović. Quel ragazzo che aveva fatto innamorare l'intera Iugoslavia della sua figura, umana oltre che di cestista, che è trapassata nella leggenda e nel ricordo eterno la notte di quel maledetto 7 giugno 1993. Dopo aver illuminato gli occhi dei tifosi del Real Madrid e di tutti gli appassionati d'Europa, già affermato come uno dei più grandi cestisti europei di sempre, Dražen si era deciso per l'NBA. In anni in cui gli europei in America non erano minimamente considerati, Petrović prima a Portland e poi a New Jersey ha dimostrato di poter essere uno dei migliori giocatori della lega. Nel giugno 1993, dopo un torneo di qualificazione per l'europeo in Polonia, Dražen aveva deciso di tornare a casa in macchina. Troppo stanco, aveva lasciato la guida all'allora fidanzata. All'altezza di Denkendorf (Germania), mentre Dražen dormiva nel sedile vicino alla conducente, un camion ha colpito l'automobile.
Per Dražen non c'è stata speranza. Uno dei più grandi figli croati se n'era andato per sempre, mentre nei Balcani infuriava il sanguinoso conflitto. E nonostante la morte fosse all'ordine del giorno, nonostante quasi non facesse più effetto, non c'è stato un uomo, appassionato di basket o meno, che non fosse rimasto colpito dalla scomparsa di una tale grandezza d'uomo e di cestista. Mio padre era a Sarajevo nel 1993, città assediata e avvolta nella morte, fra sangue e granate. Aveva sposato mia madre. Aveva dovuto interrompere gli studi, aveva dovuto abbandonare la sua elettrotecnica e il pallone da basket, per imbracciare il fucile, per combattere una guerra che mai ha ritenuto sua, da cui ha voluto scappare dal principio. Spesso mi chiedo come avesse reagito alla morte di Dražen, ai suoi pensieri. Aveva pianto?
La guerra è finita nel 1995, mio padre era tornato a casa. Era andato in Germania, dove nascevo io, lontano dai tuoni delle granate. Tornato in patria con me e mia madre, aveva cominciato a cercare un lavoro, una soluzione per un futuro migliore. Aveva un piccolo Renault Caddy, con cui sbrigava la maggioranza delle faccende. Il 3 marzo 1997, il Caddy era rimasto a casa, non guidava lui. Sedeva vicino al conducente quando vicino a Špionica, la macchina si è scontrata con un carro pesante dell'UNPROFOR.
Mio padre è morto a 28 anni, proprio come Dražen, in un incidente stradale, proprio come Dražen.
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