Seppur di convinzioni religiose parecchio confuse, ogni sera voglio pregare il buon Dio che perdoni i sempre più gravi, infimi e lugubri peccati di cui questa nostra scellerata e insensibile umanità riesce a macchiarsi.
Ogni sera voglio pregare il buon Dio che protegga tutte le persone di buona volontà e cuore sensibile dalla disumana feccia con cui siamo costretti a convivere; la disumana feccia che riesce a festeggiare la morte di una persona, a ballare sopra i cadaveri, coprendosi di giustificazioni tanto ripugnanti, folli e dense di stupida incoscienza da non essere degne di essere ripetute.
La rete è una cosa meravigliosa ma ha dato potere di espressione a tanti personaggi che non la meritano, che amano sentirsi importanti svelando i lati più oscuri e macabri della natura umana.
La visibilità accordata a tali personaggi e a tali sentimenti fa talvolta dimenticare che la natura umana possa proporre anche una nobiltà d'animo e di pensiero senza eguali.
Non meritiamo nulla più di quello che abbiamo, anzi abbiamo molto più di quanto meriteremmo.
Grazie al buon Dio.
mercoledì 13 gennaio 2016
La nostra coerenza
La nostra coerenza ha avuto modo di palesarsi un'altra volta.
Dopo gli attentati di Parigi, ci siamo indignati, più che giustamente; abbiamo commemorato le vittime, più che giustamente; abbiamo pregato, più che giustamente.
Per giorni, abbiamo parlato e sentito quasi esclusivamente notizie riguardo a questi tragici fatti.
Abbiamo sempre affermato che non ci sono "vittime di Serie A e Serie B", abbiamo affermato che la vita di ogni uomo è sacra. Ma è così?
Le poche notizie e lo scarso scalpore dell'opinione pubblica in relazione agli attentati di Beirut, precedenti di un giorno quelli di Parigi, è stato già un segnale. Le bandiere erano tutte francesi, le preghiere tutte per le vittime francesi, i minuti di commemorazione per Parigi. Gli attentati che hanno scosso il Libano sono passati in secondo piano, proprio come quelli di Ankara, Suruc, Sinai e tanti altri non hanno trovato grande spazio sulla cartastraccia delle nostre testate giornalistiche.
La reazione agli attentati di oggi è soltanto un'ennesima conferma, non certo una sorpresa. Eppure sono morte delle persone, tante sono rimaste ferite. Che la loro nazionalità sia turca, tedesca o francese non dovrebbe avere importanza, ma apparentemente non è così.
Il giusto minuto di silenzio durante tutte le manifestazioni dopo il 13 novembre è stato un gesto naturale, ma non si spiega perché dopo Ankara, Beirut e tanti nomi di città non occidentali lo stesso non sia avvenuto.
Perché dopo gli attentati di Ankara di quest'estate non è successo tutto questo? Perché il 13 novembre abbiamo pregato per le vittime di Parigi, ma non per quelle di Beirut?
Vedere i tifosi turchi fischiare il minuto di silenzio per le vittime di Parigi è stato scioccante e sconcertante. Rimane senza alcun dubbio un gesto deplorevole, ma ponendoci nella loro prospettiva delle cose, non è, in fondo, comprensibile?
Non è comprensibile fischiare il minuto di silenzio per mancare di rispetto alle vittime, sia chiaro, ma è comprensibile fischiare il minuto di silenzio per dire: "La vita di un orientale vale quanto quella di un occidentale!".
Inoltre, l'odierno (e non solo) atteggiamento passivo dei media e di gran parte della popolazione getta ombre sulle grandi e lecite commemorazioni fatte per il 13 novembre: gli hashtag, le preghiere e i silenzi per le vittime parigine hanno rappresentato un reale e sincero sentimento di cordoglio o semplicemente una moda?
Possano trovare pace e riposo eterno tutte le vittime di atti scellerati e violenti come questo!
Dopo gli attentati di Parigi, ci siamo indignati, più che giustamente; abbiamo commemorato le vittime, più che giustamente; abbiamo pregato, più che giustamente.
Per giorni, abbiamo parlato e sentito quasi esclusivamente notizie riguardo a questi tragici fatti.
Abbiamo sempre affermato che non ci sono "vittime di Serie A e Serie B", abbiamo affermato che la vita di ogni uomo è sacra. Ma è così?
Le poche notizie e lo scarso scalpore dell'opinione pubblica in relazione agli attentati di Beirut, precedenti di un giorno quelli di Parigi, è stato già un segnale. Le bandiere erano tutte francesi, le preghiere tutte per le vittime francesi, i minuti di commemorazione per Parigi. Gli attentati che hanno scosso il Libano sono passati in secondo piano, proprio come quelli di Ankara, Suruc, Sinai e tanti altri non hanno trovato grande spazio sulla cartastraccia delle nostre testate giornalistiche.
La reazione agli attentati di oggi è soltanto un'ennesima conferma, non certo una sorpresa. Eppure sono morte delle persone, tante sono rimaste ferite. Che la loro nazionalità sia turca, tedesca o francese non dovrebbe avere importanza, ma apparentemente non è così.
Il giusto minuto di silenzio durante tutte le manifestazioni dopo il 13 novembre è stato un gesto naturale, ma non si spiega perché dopo Ankara, Beirut e tanti nomi di città non occidentali lo stesso non sia avvenuto.
Perché dopo gli attentati di Ankara di quest'estate non è successo tutto questo? Perché il 13 novembre abbiamo pregato per le vittime di Parigi, ma non per quelle di Beirut?
Vedere i tifosi turchi fischiare il minuto di silenzio per le vittime di Parigi è stato scioccante e sconcertante. Rimane senza alcun dubbio un gesto deplorevole, ma ponendoci nella loro prospettiva delle cose, non è, in fondo, comprensibile?
Non è comprensibile fischiare il minuto di silenzio per mancare di rispetto alle vittime, sia chiaro, ma è comprensibile fischiare il minuto di silenzio per dire: "La vita di un orientale vale quanto quella di un occidentale!".
Inoltre, l'odierno (e non solo) atteggiamento passivo dei media e di gran parte della popolazione getta ombre sulle grandi e lecite commemorazioni fatte per il 13 novembre: gli hashtag, le preghiere e i silenzi per le vittime parigine hanno rappresentato un reale e sincero sentimento di cordoglio o semplicemente una moda?
Possano trovare pace e riposo eterno tutte le vittime di atti scellerati e violenti come questo!
domenica 10 gennaio 2016
Pensieri non progettati e il terzo cassetto del mio comodino
Ho sempre avuto un rapporto strano con il tempo, molto,
forse troppo personale, divorante e inizialmente per scelta, poi per
inevitabilità voluto. Se penso a quale potere soprannaturale vorrei avere, da
che ho memoria ho sempre avuto “viaggiare nel tempo” come risposta pronta,
sicura, inconfutabile, da tanti e tanti anni. La memoria che ho a volte mi
spaventa, a volta è veramente eccessivamente colma di dettagli che il tempo non
si cura di levigare. Cos'è il tempo? Una forza? Una maledizione? Una spinta? Un’attrazione,
un vento, uno strattone che ti tira per il braccio e ti trascina avanti,
indietro? Trovo così difficile viverle tutte le tre dimensioni del tempo.
Molto, molto, molto. Il presente è quella che mi sfugge, la snobbo, non andiamo
d’accordo. Sono perennemente immersa o troppo indietro o troppo avanti, o
troppo tardi o troppo presto. Date, date, date, date che il tempo mi ha dato e
che non se ne vanno dalla mia memoria; ho risme di fogli di calendari nel
cervello, 366 cassetti pieni di fogli, e un po’ mi pesano, anche se non sono
che pochi fogli in ciascuno per ora. Mi pesano, ma allo stesso tempo mi
confortano con una nostalgia struggente e che tuttavia scelgo, perché mi
consola allo stesso tempo. Nel comodino di fianco al mio letto ho tre cassetti.
Nel primo ci sono fazzoletti, penne, burrocacao. Nel secondo pennarelli,
disegni e ritagli di giornale. Il terzo è il cassetto dei ricordi che mi fanno
stare bene. E’ pieno di lettere, e sto piangendo in questo momento rendendomi
conto di quanto io sia fortunata ad avere avuto un tempo per ricevere quelle
lettere, e di aver saputo conservarle, anche se ero e in fin dei conti sono
ancora piccola. Ci sono tutte le lettere che ho ricevuto da un’amica quando
eravamo tanto bambine, poi lei ha deciso di diventare più grande senza di me e
mi restano tutte quelle lettere con le fragoline sulla busta, con francobolli
disegnati e con i regalini che mi portava dalla Corsica quando andava in
vacanza. Ricordo quello che abbiamo mangiato insieme la prima volta che era
venuta a casa mia. Avevamo otto anni. Quando ha deciso di smettere di crescere
con me io ho cercato con ogni mezzo di evitarlo, e quando non mi voleva più per
il suo diciottesimo compleanno mi sono fatta i chilometri in bicicletta con la
pioggia e sono andata a casa sua portandole le stesse cose che avevamo mangiato
quella prima volta tutti quegli anni prima insieme. Speravo in una rinascita di
amicizia, non l’ho avuta. Pensavo che fosse un’amicizia prediletta e invece era
solo predestinata a ferirmi. Mi dico che fa lo stesso, ma non fa lo stesso per
niente.
Nel terzo cassetto ci sono due buste di plastica straripanti di scontrini, brochure, disegni, cartoline, etichette e apparenti montagne di assurdità del mio primo vero viaggio che tanto mi ha cambiato. C’è la dichiarazione di amore più profonda e totale che mi ha scritto la mia nonna, ci sono biglietti di compleanno di quando avevo due anni, c’è la pagella delle elementari della mia bisnonna, che sua figlia avrebbe buttato via se non le avessi chiesto di tenerla per me. Io mi voglio bene alla fine, in sporadici momenti. Momenti momenti attimi settimane tempo tempo tempo. Mi ha sempre ammaliato e sovrastato come scorrano i giorni. Sapevo sempre quanti ne mancassero alla fine della scuola o alle vacanze di Natale o alla gita di classe, fin da settembre. Quando prendevo appunti non mancavano mai giorno, mese, anno, giorno della settimana e ora. Non è raro, è abitudine che io sappia dove fossi e cosa stessi facendo in ogni preciso giorno negli anni precedenti. Ricordo troppo, cose che non importano a nessuno, veramente troppo. Quando avevo nove anni ricordo di aver inciso sul tavolo del salotto di casa la data di quel giorno, e quando mia mamma ovviamente si arrabbiò e mi chiese perché l’avessi fatto, risposi che volevo solo ricordare il giorno. Le date sono una necessità che supera altamente il senso pratico per me, mi danno sicurezza.
Ricordare fa parte delle mie passioni. Ho la passione di ricordare, e non me ne dimentico mai.
Nel terzo cassetto ci sono due buste di plastica straripanti di scontrini, brochure, disegni, cartoline, etichette e apparenti montagne di assurdità del mio primo vero viaggio che tanto mi ha cambiato. C’è la dichiarazione di amore più profonda e totale che mi ha scritto la mia nonna, ci sono biglietti di compleanno di quando avevo due anni, c’è la pagella delle elementari della mia bisnonna, che sua figlia avrebbe buttato via se non le avessi chiesto di tenerla per me. Io mi voglio bene alla fine, in sporadici momenti. Momenti momenti attimi settimane tempo tempo tempo. Mi ha sempre ammaliato e sovrastato come scorrano i giorni. Sapevo sempre quanti ne mancassero alla fine della scuola o alle vacanze di Natale o alla gita di classe, fin da settembre. Quando prendevo appunti non mancavano mai giorno, mese, anno, giorno della settimana e ora. Non è raro, è abitudine che io sappia dove fossi e cosa stessi facendo in ogni preciso giorno negli anni precedenti. Ricordo troppo, cose che non importano a nessuno, veramente troppo. Quando avevo nove anni ricordo di aver inciso sul tavolo del salotto di casa la data di quel giorno, e quando mia mamma ovviamente si arrabbiò e mi chiese perché l’avessi fatto, risposi che volevo solo ricordare il giorno. Le date sono una necessità che supera altamente il senso pratico per me, mi danno sicurezza.
Ricordare fa parte delle mie passioni. Ho la passione di ricordare, e non me ne dimentico mai.
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