giovedì 12 maggio 2016

Sarajevo

Piove su questa città.
E stavolta è solo acqua.
Piove
e non rimbomba.

Ma le gocce scendono
come lacrime
su un passato
che non si può cancellare.

sabato 2 aprile 2016

Irene-Italo Calvino

Irene è la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell’altipiano nell’ora che le luci s’accendono e per l’aria limpida si distingue laggiú in fondo la rosa dell’abitato: dov’è piú densa di finestre, dove si dirada in viottoli appena illuminati, dove ammassa ombre di giardini, dove innalza torri con i fuochi dei segnali; e se la sera è brumosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna lattigginosa al piede dei calanchi.I viaggiatori dell’altipiano, i pastori che transumano gli armenti, gli uccellatori che sorvegliano le reti, gli eremiti che colgono radicchi, tutti guardano in basso e parlano di Irene. Il vento porta a volte una musica di grancasse e trombe, lo scoppiettio dei mortaretti nella luminaria d’una festa; a volte lo sgranare della mitraglia,l’esplosione d’una polveriera nel cielo giallo degli incendi appiccati dalla guerra civile. Quelli che guardano di lassù fanno congetture su quanto sta accadendo nella città, si domandano se sarebbe bello o brutto trovarsi a Irene quella sera. Non che abbiano intenzione d’andarci –e comunque le strade che calano a valle sono cattive– ma Irene calamita sguardi e pensieri di chi sta là in alto. A questo punto Kublai Kan s’aspetta che Marco parli d’Irene com’è vista da dentro. E Marco non può farlo:quale sia la città che quelli dell’altipiano chiamano Irene non è riuscito a saperlo; d’altronde poco importa: a vederla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare;ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene.

martedì 22 marzo 2016

El poeta se lamenta de la fugacidad del querer humano-Alfonso Canales


¿Adónde va el amor, por más que duela
el corazón a cada estrecho paso;
con qué peso se hunde, en qué fracaso
el beso se anonada y se cancela?
              
Abrígalo si puedes: va que vuela
su precario calor, al cielo raso.
Mira que con frecuencia se da el caso
de que a la vuelta el velo se desvela.
              
¿Adónde vamos a parar con tanta
ráfaga que se va por un postigo,
si el cisne se nos muere cuando canta?
              
¿Qué puede alimentarnos este trigo
que siempre se nos queda en la garganta?
¿Adónde vamos a parar, amigo?


venerdì 18 marzo 2016

Strinsi le mani sotto il velo oscuro-Anna Achmatova (1911)



Strinsi le mani sotto il velo oscuro...
“Perché oggi sei pallida?”
Perché d’agra tristezza 
l’ho abbeverato fino ad ubriacarlo.

Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore...
Corsi senza sfiorare la ringhiera, 
corsi dietro di lui fino al portone.

Soffocando, gridai: “E’ stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai”.
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: “Non startene al vento.”



TESTO ORIGINALE:


Сжала руки под темной вуалью...
“Отчего ты сегодня бледна?”
- Оттого, что я терпкой печалью
Напоила его допьяна.

Как забыты? Он вышел, шатаясь,
Искривился мучительно рот...
Я сбежала, перил не касаясь,
Я бежала за ним до ворот.


Задыхаясь, я крикнула: “Шутка
Все, что было. Уйдешь, я умру”.
Улыбнулся спокойно и жутко
И сказал мне: “Не стой на ветру”.





sabato 27 febbraio 2016

Frate Antun Knežević sulla Bosnia-Erzegovina (1870)

"Alcuni nostri vicini si arrabbiano molto, perché siamo orgogliosi del nostro antico nome, della lingua e tradizione e perché non vogliamo accogliere il loro nome come indice di nostra nazionalità e lingua. Sono d'accordo nell'attaccarci i vicini, che chiameremo, per intenderci meglio, Jovo e Ivo (1). Ma e l'uno e l'altro da noi vogliono cose diverse, perché su questo non riescono a essere d'accordo a nessun costo. L'amico Jovo ci indica di prendere il suo nome, mentre l'amico Ivo afferma che noi apparteniamo a lui e che dobbiamo accogliere il suo nome". Tira di qua, tira di là, e il tutto senza che qualcuno abbia chiesto qualcosa a noi.

Dal nostro amore, a causa dei loro infiniti litigi, gli amici ci avrebbero divisi; se non avessimo imparato questo da lungo tempo, ora dovremmo diventare roccia per il continuo stupore. Per come stanno le cose, però, chiederemo ai nostri amici, che amano lavorare con la penna e con la stampa: perché litigate tanto riguardo a noi, quando sapete bene che il Bošnjak (2) dai tempi antichi è abituato a essere orgoglioso della propria lingua, chiamarsi con il proprio nome e essere legato alle proprie tradizioni e ai ricordi dei propri avi. La storia della nostra terra ci ricorda quei tempi in cui la nostra piccola nobiltà, in ogni occasione, apertamente dichiarava di appartenere alla orgogliosa e nobile nazionalità bosniaca (3). Guardiamo i molti documenti degli scrittori nostrani dei secoli passati, nei quali si sottolinea sempre il nostro vero nome Bošnjak. Questa e la ragione per cui noi, come loro fedeli e grati figli, ci chiamiamo con questo glorioso nome. Un nome che non possiamo abbandonare né abbandoneremo, ma che utilizzeremo fedelmente e costantemente.

Siamo orgogliosi del fatto che proprio la nostra rinomata lingua sia stata presa come base e fondamento delle lingue letterarie dei nostri vicini Serbi e Croati. Rinomati linguisti quali Vuk Karadžić, Dančić e Ljudevit Gaj hanno riportato la nostra bella lingua nella letteratura dei suddetti popoli e l'hanno chiamata, come hanno voluto loro, gli uni serba e gli altri croata, senza ricordare noi nemmeno in minima parte. Noi abbiamo diritto a essere orgogliosi che i nostri amici Jovo e Ivo si servano della nostra lingua in letteratura, e ciò ci deve essere riconosciuto. Ma noi non riusciamo a capire perché vogliano imporre a noi il nome che hanno dato alla nostra lingua, senza chiederci nulla, e ci impediscano addirittura di indicare la nostra lingua con il nome del nostro popolo. Un fatto simile avverrebbe se qualcuno altro desse un nome a nostro figlio. Noi non approviamo affatto tali richieste e illazioni. Ciononostante, onore e rispetto a entrambi i nostri amici, al Serbo e al Croato. Noi non odiamo la loro nazionalità, noi non li guardiamo con occhio sospettoso, noi non negheremo mai di essere appartenenti in origine agli Slavi del Sud, ma vogliamo dimostrare proprio che noi bosniaci siamo al primo grado di questa gloriosa discendenza. E sempre rimaniamo bosniaci, come lo erano i nostri bisnonni. Quindi, che si guardino bene per terra i nostri fratelli, che da secoli vivono in Bosnia-Erzegovina, ma vogliono essere Serbi o Croati. Che studino e pensino bene a ciò che ho scritto

Frate Antun Knežević (1834-1889):scrittore e storico bosniaco del XIX secolo.

(1): Jovo è un nome tipicamente serbo, mentre Ivo è un nome tipicamente croato. Knežević li utilizza per indicare l'uno e l'altro popolo. Entrambi i nomi sono il corrispettivo serbo e croato del nome Giovanni.
(2): termine oggi utilizzato per designare prevalentemente la popolazione musulmana del Paese, in seguito a una forzatura dai chiari tratti politici effettuata nella seconda parte degli anni Novanta. Il termine indica nel contesto di Knežević e nel suo significato reale ogni persona che venga dalla Bosnia-Erzegovina. Negli effetti è un'indicazione geografica e non etnico-religiosa. In italiano si potrebbe rendere semplicemente con bosniaco.
(3): Knežević ricorda come, dopo la conquista ottomana del 1463, la nobiltà bosniaca e l'intero Paese abbiano goduto di uno status di eccezionale autonomia all'interno dell'Impero Ottomano. Infatti, i bosniaci anche nel contesto della dominazione turca hanno mantenuto un'identità fortemente distinta da quella degli occupatori.
(4): Knežević è polemico con tante figure, anche di spicco, della nobiltà e cultura bosniaca che hanno preferito la nazionalità serba oppure croata già al suo tempo. Poco successivo a lui fu Safvet Beg-Bašagić, uno dei maggiori letterati bosniaci della storia, il quale affermò la sua lingua essere croata ("Jer hrvatskoga jezika šum/može da goji/može da spoji/Istok i Zapad, pjesmu i um", in trad. "Perché il suono della lingua croata/può alimentare/può unire/l'Est e l'Ovest, la canzone e la ragione", da "Čarobna kćeri",Izabrane pjesme. Vlastita naklada. Sarajevo, 1913). Fra i tanti altri che si possono ritenere colpiti da questa critica c'è anche il premio Nobel Ivo Andrić, di Sarajevo, ma definitosi di nazionalità serba, il quale appoggiò anche l'organizzazione terroristica Mlada Bosna, nel nome della quale Gavrilo Princip uccise l'erede al trono austriaco, scatenando la Prima Guerra Mondiale (1914).

mercoledì 13 gennaio 2016

La mia preghiera

Seppur di convinzioni religiose parecchio confuse, ogni sera voglio pregare il buon Dio che perdoni i sempre più gravi, infimi e lugubri peccati di cui questa nostra scellerata e insensibile umanità riesce a macchiarsi.
Ogni sera voglio pregare il buon Dio che protegga tutte le persone di buona volontà e cuore sensibile dalla disumana feccia con cui siamo costretti a convivere; la disumana feccia che riesce a festeggiare la morte di una persona, a ballare sopra i cadaveri, coprendosi di giustificazioni tanto ripugnanti, folli e dense di stupida incoscienza da non essere degne di essere ripetute.

La rete è una cosa meravigliosa ma ha dato potere di espressione a tanti personaggi che non la meritano, che amano sentirsi importanti svelando i lati più oscuri e macabri della natura umana.
La visibilità accordata a tali personaggi e a tali sentimenti fa talvolta dimenticare che la natura umana possa proporre anche una nobiltà d'animo e di pensiero senza eguali.

Non meritiamo nulla più di quello che abbiamo, anzi abbiamo molto più di quanto meriteremmo.
Grazie al buon Dio.

La nostra coerenza

La nostra coerenza ha avuto modo di palesarsi un'altra volta.
Dopo gli attentati di Parigi, ci siamo indignati, più che giustamente; abbiamo commemorato le vittime, più che giustamente; abbiamo pregato, più che giustamente.
Per giorni, abbiamo parlato e sentito quasi esclusivamente notizie riguardo a questi tragici fatti.
Abbiamo sempre affermato che non ci sono "vittime di Serie A e Serie B", abbiamo affermato che la vita di ogni uomo è sacra. Ma è così?
Le poche notizie e lo scarso scalpore dell'opinione pubblica in relazione agli attentati di Beirut, precedenti di un giorno quelli di Parigi, è stato già un segnale. Le bandiere erano tutte francesi, le preghiere tutte per le vittime francesi, i minuti di commemorazione per Parigi. Gli attentati che hanno scosso il Libano sono passati in secondo piano, proprio come quelli di Ankara, Suruc, Sinai e tanti altri non hanno trovato grande spazio sulla cartastraccia delle nostre testate giornalistiche.
La reazione agli attentati di oggi è soltanto un'ennesima conferma, non certo una sorpresa. Eppure sono morte delle persone, tante sono rimaste ferite. Che la loro nazionalità sia turca, tedesca o francese non dovrebbe avere importanza, ma apparentemente non è così.
Il giusto minuto di silenzio durante tutte le manifestazioni dopo il 13 novembre è stato un gesto naturale, ma non si spiega perché dopo Ankara, Beirut e tanti nomi di città non occidentali lo stesso non sia avvenuto.
Perché dopo gli attentati di Ankara di quest'estate non è successo tutto questo? Perché il 13 novembre abbiamo pregato per le vittime di Parigi, ma non per quelle di Beirut?
Vedere i tifosi turchi fischiare il minuto di silenzio per le vittime di Parigi è stato scioccante e sconcertante. Rimane senza alcun dubbio un gesto deplorevole, ma ponendoci nella loro prospettiva delle cose, non è, in fondo, comprensibile?
Non è comprensibile fischiare il minuto di silenzio per mancare di rispetto alle vittime, sia chiaro, ma è comprensibile fischiare il minuto di silenzio per dire: "La vita di un orientale vale quanto quella di un occidentale!".
Inoltre, l'odierno (e non solo) atteggiamento passivo dei media e di gran parte della popolazione getta ombre sulle grandi e lecite commemorazioni fatte per il 13 novembre: gli hashtag, le preghiere e i silenzi per le vittime parigine hanno rappresentato un reale e sincero sentimento di cordoglio o semplicemente una moda?

Possano trovare pace e riposo eterno tutte le vittime di atti scellerati e violenti come questo!

domenica 10 gennaio 2016

Pensieri non progettati e il terzo cassetto del mio comodino

Ho sempre avuto un rapporto strano con il tempo, molto, forse troppo personale, divorante e inizialmente per scelta, poi per inevitabilità voluto. Se penso a quale potere soprannaturale vorrei avere, da che ho memoria ho sempre avuto “viaggiare nel tempo” come risposta pronta, sicura, inconfutabile, da tanti e tanti anni. La memoria che ho a volte mi spaventa, a volta è veramente eccessivamente colma di dettagli che il tempo non si cura di levigare. Cos'è il tempo? Una forza? Una maledizione? Una spinta? Un’attrazione, un vento, uno strattone che ti tira per il braccio e ti trascina avanti, indietro? Trovo così difficile viverle tutte le tre dimensioni del tempo. Molto, molto, molto. Il presente è quella che mi sfugge, la snobbo, non andiamo d’accordo. Sono perennemente immersa o troppo indietro o troppo avanti, o troppo tardi o troppo presto. Date, date, date, date che il tempo mi ha dato e che non se ne vanno dalla mia memoria; ho risme di fogli di calendari nel cervello, 366 cassetti pieni di fogli, e un po’ mi pesano, anche se non sono che pochi fogli in ciascuno per ora. Mi pesano, ma allo stesso tempo mi confortano con una nostalgia struggente e che tuttavia scelgo, perché mi consola allo stesso tempo. Nel comodino di fianco al mio letto ho tre cassetti. Nel primo ci sono fazzoletti, penne, burrocacao. Nel secondo pennarelli, disegni e ritagli di giornale. Il terzo è il cassetto dei ricordi che mi fanno stare bene. E’ pieno di lettere, e sto piangendo in questo momento rendendomi conto di quanto io sia fortunata ad avere avuto un tempo per ricevere quelle lettere, e di aver saputo conservarle, anche se ero e in fin dei conti sono ancora piccola. Ci sono tutte le lettere che ho ricevuto da un’amica quando eravamo tanto bambine, poi lei ha deciso di diventare più grande senza di me e mi restano tutte quelle lettere con le fragoline sulla busta, con francobolli disegnati e con i regalini che mi portava dalla Corsica quando andava in vacanza. Ricordo quello che abbiamo mangiato insieme la prima volta che era venuta a casa mia. Avevamo otto anni. Quando ha deciso di smettere di crescere con me io ho cercato con ogni mezzo di evitarlo, e quando non mi voleva più per il suo diciottesimo compleanno mi sono fatta i chilometri in bicicletta con la pioggia e sono andata a casa sua portandole le stesse cose che avevamo mangiato quella prima volta tutti quegli anni prima insieme. Speravo in una rinascita di amicizia, non l’ho avuta. Pensavo che fosse un’amicizia prediletta e invece era solo predestinata a ferirmi. Mi dico che fa lo stesso, ma non fa lo stesso per niente.
Nel terzo cassetto ci sono due buste di plastica straripanti di scontrini, brochure, disegni, cartoline, etichette e apparenti montagne di assurdità del mio primo vero viaggio che tanto mi ha cambiato. C’è la dichiarazione di amore più profonda e totale che mi ha scritto la mia nonna, ci sono biglietti di compleanno di quando avevo due anni, c’è la pagella delle elementari della mia bisnonna, che sua figlia avrebbe buttato via se non le avessi chiesto di tenerla per me. Io mi voglio bene alla fine, in sporadici momenti. Momenti momenti attimi settimane tempo tempo tempo. Mi ha sempre ammaliato e sovrastato come scorrano i giorni. Sapevo sempre quanti ne mancassero alla fine della scuola o alle vacanze di Natale o alla gita di classe, fin da settembre. Quando prendevo appunti non mancavano mai giorno, mese, anno, giorno della settimana e ora. Non è raro, è abitudine che io sappia dove fossi e cosa stessi facendo in ogni preciso giorno negli anni precedenti. Ricordo troppo, cose che non importano a nessuno, veramente troppo. Quando avevo nove anni ricordo di aver inciso sul tavolo del salotto di casa la data di quel giorno, e quando mia mamma ovviamente si arrabbiò e mi chiese perché l’avessi fatto, risposi che volevo solo ricordare il giorno. Le date sono una necessità che supera altamente il senso pratico per me, mi danno sicurezza.
Ricordare fa parte delle mie passioni. Ho la passione di ricordare, e non me ne dimentico mai.