Buona parte del mio carattere è ostinazione.
Perseveranza testarda.
Gentilezza che sbotta, gli argini si rompono, perdo le staffe, tutto rotola via, giù, fuori, si svuotano le falde represse, mi disidrato di tutto quello che avrei voluto dire, e quello che dico vorrei fosse un elastico che si legasse al polso delle persone che vorrei tenere con me; queste a molla rimbalzerebbero indietro al mio fianco.
Non per egoismo. Per timore di delusione.
Ma quell'elastico lo tiro troppo, finisce per schiantarsi sulla persona, la frusta e torna indietro solo lacerato e leso, leso l'elastico, lesa la persona, lesa la mia persona.
Lì io non lascio perdere.
Trasformo l'elastico in uno spago. E spero che da spago diventi un nastro, poi un filo da pesca, poi un invisibile filo di perle.
Non per egoismo. Per voler sempre salvare il salvabile, al limite del possibile, sporgendomi anche oltre l'orlo del possibile, rischiando di precipitare. Se fosse per me, nulla andrebbe perduto.
Da elastico a spago. Ruvido, ma meno doloroso.
Non lo lego stretto.
Non lo lego proprio.
Non c'è a chi legarlo.
Lo preparo comunque, e vado a cercare la persona a cui sempre avrei voluto legarlo.
Non per egoismo. Per personale, insistente concezione di amicizia. Per me nulla finisce.
Srotolo la mia matassa di spago. È un gomitolo lungo, ne ho già usato diversi pezzi e ne ho pronti altri. Spero sempre che non mi dovranno servire, che non ne avrò bisogno, e allo stesso tempo temo che dovrò usarne ancora tanti metri.
Nei casi cattivi, mi prendono lo spago, lo tirano con violenza, me lo fanno scappare dalle mani che si lacerano, lo annodano a pugnalate, ci legano coltelli e poi me lo rigettano addosso.
Raramente schivo. Non ci riesco e mai ci provo.
Non per autolesionismo. Per principio di recuperabilità dei rapporti. Non posso rinunciarvi, non posso rinnegarlo.
Nei casi buoni, l'altra persona vede lo spago.
Lo raccoglie, lo valuta, lo prende in mano. Poi ci attacca un vasetto di yogurt vuoto bucato sul fondo, io faccio altrettanto ed è il gioco dei telefoni che si faceva tanti anni fa.
È il gioco del ricominciare a comunicare che si faceva tanto tempo fa.
Nel telefono di plastica, le parole sfilano piano piano le fibre ruvide dallo spago, e le sostituiscono con fili di raso.
Diventa un nastro. Senza fiocchi, senza nodi. È ancora fragile e si rovinerebbe, si stropiccerebbe.
Il nastro diventa forte, e nella sua forza si assottiglia, cede fibra alla relazione tra i due capi dei vasetti di yogurt vuoti bucati sul fondo.
Si fa così forte da sentirsi in grado di buttarsi in acqua, di appendersi un amo, di trattenere il respiro, di aspettare i pes(c)i.
È una lenza.
Abboccano a volte pesci, a volte solo lische; abboccano triglie e mostri, anguille fastidiose e sogliole squisitamente semplici.
Abboccano gioie e vuoti, viscidi fardelli scomodi e momenti belli da volerli scrivere su una tela per incorniciarli.
È la pesca dell'amicizia.
Col tempo, si prende coraggio e si lascia il filo da lenza.
Si allontanano i vasetti dalle orecchie e dalle labbra per ricominciare a guardarsi negli occhi. Si va a pescare insieme a mani nude, con al collo un invisibile filo di perle.
Anna